Dopo la grande vittoria alle elezioni, ora Angela Merkel deve affrontare l’Europa. Siamo in un periodo simile al secondo dopoguerra o agli anni ‘80, prima e dopo la caduta del muro: le sfide di oggi non sono minori di quelle di allora. E richiedono di superare la minaccia sempre presente dei vecchi nazionalismi. L’atteggiamento della Cancelliera durante la crisi, specialmente dal 2010, ha permesso di salvare la moneta unica, ma non ha posto le basi per una definitiva stabilità. L’euro è stato costruito su una mutua cessione: i tedeschi dovevano scordarsi del loro caro marco, mentre gli altri paesi dovevano accettare l’unificazione della Germania.

La Merkel ha reso possibile il salvataggio completo di Grecia, Portogallo, Cipro e Irlanda, e anche quello finanziario della Spagna. Ma ha anche imposto alcune condizioni che, specialmente nel caso di Grecia e Portogallo, sono quasi impossibili da rispettare. Le esigenze della Troika si sono trasformate in un giogo per i paesi del sud. Lo stesso è accaduto sul fronte della politica monetaria: la Germania ha permesso alla Bce di sostenere l’euro, una decisione rischiosa quanto necessaria, che ancora può essere messa in discussione dalla Corte costituzionale di Karlsruhe. Nel frattempo è stato messo un freno all’unione bancaria, a quella fiscale e quindi agli eurobond. Riguardo l’uso di questi ultimi, la Merkel nel giorno di chiusura della campagna elettorale ha espresso un chiaro rifiuto. È chiaro però che la condivisione del debito e gli altri strumenti, nonostante le resistenze tedesche, sono necessari perché l’euro non sia vittima dei mercati globalizzati. Bisogna in sintesi portare a termine l’unione che è stata avviata.

Infatti, per quanto riguarda la sovranità economica, la Germania e i suoi paesi satellite hanno avviato una “finta” cessione di competenze al Consiglio europeo e all’Ecofin riguardo le politiche da mettere in atto per i paesi in difficoltà. Il caso della Spagna su tale questione è molto significativo. Il Governo Rajoy non vuole nemmeno lontanamente che si prolunghi il sostegno dell’Esm (il Meccanismo europeo di stabilità) perché ritiene sia meglio finanziarsi sui mercati. Tuttavia la leadership tedesca preferirebbe un prolungamento degli aiuti per aver più forza per spingere l’esecutivo di Madrid a mettere sotto contro il deficit. Le cessioni di sovranità dovranno essere accompagnate da una maggior integrazione politica in favore delle autorità europee e non da accordi in cui comanda il più grande e il più ricco senza regole chiare al riguardo.

La Merkel ha due ossessioni: la competitività e la sostenibilità del sistema. Ed è giusto e ragionevole che le abbia. La Cancelliera non smette di ripetere che l’Europa sta perdendo importanza nel mondo e ricorda costantemente che con la situazione demografica attuale i conti non permettono di mantenere il welfare state che conosciamo. Queste preoccupazioni, il successo dell’Agenda 2010 avviata da Schroeder nel 2003 e il timore che l’euroscetticismo cresca tra i tedeschi hanno condizionato la politica nell’ultima legislatura. L’Agenda 2010 può essere, come ha sostenuto la Merkel, un riferimento per l’Europa: è assolutamente necessario ridurre il settore pubblico per renderlo efficace, riformare il mercato del lavoro perché sia più dinamico, prolungare la vita lavorativa, modificare il sistema pensionistico e ottenere l’austerità fiscale. Ma applicare questa ricetta senza consolidare le istituzioni europee e senza accompagnarla con alcune politiche di stimolo ci porta in recessione. Abbiamo già visto quel che è successo negli ultimi anni: le politiche di austerità fiscale si sono tradotte in un aumento delle tasse che hanno frenato l’economia. Ed è impossibile accrescere la competitività senza investire in conoscenza ed educazione.

La capacità reale di competere non si può basare sulla svalutazione interna, che nel caso di una moneta unica si attua attraverso un calo dei salari e dei consumi. Anche in questo caso la Spagna è un esempio emblematico. Le esportazioni stanno trainando l’economia e possono favorire la ripresa. La bilancia commerciale migliora perché si produce la stessa quantità di prima, ma con sei milioni di disoccupati e perché questa produzione viene pagata con salari ridotti fino al 30%. Non è chiaramente un modello sostenibile, perché ci sarà sempre qualcuno disposto a lavorare per meno soldi, soprattutto sull’altra sponda del Mediterraneo.

L’aumento della produttività necessario è quello che genera un uso intensivo della tecnologia, la conoscenza e il posizionamento in settori ad alto valore aggiunto. È logico che i tedeschi non vogliano farsi carico dei debiti degli altri, dei paesi in cui la festa è durata troppo. Ma il destino della Germania è legato al resto d’Europa.

Da soli non andiamo avanti, l’Europa deve avanzare. Ci raccomanderemo a Schuman, De Gasperi e Monnet (anche se quest’ultimo non era credente).