Di Albert Camus ho già parlato nell’editoriale dello scorso 10 giugno. Ma voglio ritornarci con un ricordo personale. Non per tediare il lettore coi fatti miei, ma perché m’è venuta una certa insofferenza vedendo che le celebrazioni del centenario della nascita (che cadrà il prossimo 7 novembre) si stanno quasi esclusivamente concentrando sulla stantia questione dell’intellettuale più o meno «impegnato». Il fascino che la prima lettura di Camus ha esercitato su di me e l’interesse che a mio parere riveste oggi è quanto di più lontano ci sia da simili discussioni.
Avevo quindici anni e, in quinta ginnasio, la professoressa di francese ci fece leggere La peste. Sono stato immediatamente arpionato dalla scena in cui in protagonista, il dottor Bernard Rieux, assiste, sul pianerottolo di casa, all’agonia e alla morte di «un grosso topo dall’andatura incerta e dal pelame bagnato». Come nel romanzo – e nella realtà di quel tipo di epidemie – la morte del ratto annunciava l’arrivo della pestilenza, così per me in quella scena si raggrumavano i dolori, i dubbi, le insicurezze dell’adolescente che si apre all’età adulta e si vede minacciato da qualcosa di oscuro, sente un pericolo incombente. Forse che anche per me, per le mie certezze di bambino, per l’ambiente da cui ero stato fino ad allora protetto il futuro sarebbe stato quello della città di Orano, su cui si stava abbattendo la peste? Tutto sarebbe stato travolto dalla «scoperta» di Camus, che cioè – ci spiegava la professoressa – la vita e il mondo sono «assurdi»?
Certo, io avevo una risorsa: la fede cristiana che fin da piccolo seguivo con ingenuità e impegno. Così, quando nella lettura del romanzo arrivammo ai dialoghi tra il dottor Rieux, evidente controfigura dell’autore, e il reverendo Paneloux, io stavo senza esitazione dalla parte di quest’ultimo. Anche quando, di fronte alle angosciose domande del medico sul significato della sofferenza, rispondeva: «Dobbiamo amare quello che non possiamo capire». Eppure dentro di me qualcosa diceva che così non bastava. Il cristianesimo non può essere un salto nel buio; che lo si chiami amore o che lo si chiami fede, se è solo buio, mi appariva del tutto insufficiente.
Tanto valeva abbracciare la nobile «rivolta» di Rieux, mettersi a curare i mali del mondo senza tenersi tra i piedi questioni troppo più grandi di noi come la felicità, il destino, il significato.
Solo più tardi, quando il cristianesimo mi fu presentato in tutta la razionale luminosità della sua proposta, quando mi fu spiegato che l’assurdo è una opzione non ragionevole e che invece si deve parlare di «mistero», e quando vidi che questa proposta non tralascia nessuna domanda, non si nasconde di fronte a nessun dramma, non nega nessun desiderio, capii più profondamente il cristianesimo e anche Camus. Capii che, nonostante tutto, egli, come il suo Caligola, cercava – suprema razionalità – la luna. Tanto da poter dire nel discorso di recezione del premio Nobel assegnatogli nel 1957: «Non ho mai potuto rinunciare alla luce». Quella luce che non è prodotta dalle nostre fatiche per salvare la città sconvolta dalla peste dell’assurdo, ma che accade «come un bel giorno» e che noi vogliamo instancabilmente – suprema scelta della libertà – aspettare.