La lunga intervista di papa Francesco a La Civiltà Cattolica sta suscitando vivacissime discussioni; come, del resto, la sua lettera in risposta ad Eugenio Scalfari, nonché quella del suo predecessore a Piergiorgio Odifreddi. Nessuno può nascondersi che si tratta di poderose sollecitazioni ad approfondire, ad aprire prospettive, a mettere in discussione schemi preconfezionati. È necessario, però, evitare il tarlo della unilateralità, cioè di assumere le argomentazioni dei pontefici osservandone soltanto un lato ed interpretandolo come meglio ci aggrada.



Prendiamo, tra i molti possibili esempi, l’ormai celebre definizione che papa Francesco dà della Chiesa: “Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto”. Con una certa faciloneria si è commentato che ciò significa che la Chiesa deve occuparsi non più di questioni etiche, bensì di giustizia sociale. Ma questo, tutt’al più, è dell’ordine delle conseguenze, diciamo così, tattiche. È evidente, invece, che il richiamo di Francesco tende esattamente a spostare lo sguardo e l’attenzione dalle conseguenze etiche – che si tratti delle vicende legate alla “bio” etica oppure di quelle “socio” etiche – al contenuto ontologico del messaggio cristiano. E infatti l’intervista prosegue: “La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: ‘Gesù Cristo ti ha salvato!'”.



Se non sorvoliamo con sbadataggine o presunzione su quest’ultima parola – “salvato” – troviamo il cuore della vicenda e anche la permanente scandalosità dell’annuncio cristiano: se sono “salvato” è perché prima mi trovavo in un grave pericolo; del quale, magari, non m’accorgevo neppure e che mi appare ora in tutta la sua gravità proprio perché ne sono uscito. I “feriti” sul campo di battaglia sono tanto più gravi quanto più pensano di aver bisogno soltanto di un controllo al colesterolo e non si rendono conto di avere una cancrena. Ma, appunto, un soccorritore non ha come prima preoccupazione quella di discettare col ferito sui suoi malanni: provvede a proporre una cura.



A tale riguardo, Francesco parla immediatamente di “misericordia”. Segno allora che le ferite di cui stava dicendo non sono riducibili a quelle del corpo prodotte dall’ingiustizia sociale (del resto, lo stesso Francesco aveva più volte sottolineato che la Chiesa non è una Ong) e neppure a quelle derivate dal disordine morale, dal disagio psicologico, dalla fragilità affettiva. 

La ferita è quella provocata dal “peccato”. Sì, proprio questa ombra strana che la Chiesa ha sempre posto all’origine della sua antropologia – il “peccato originale” −, per cui l’uomo non riesce ad essere se stesso, a soddisfare la ragione che chiede verità, l’affezione che desidera amore, a dare ordine alla sua libertà.

Si comprende allora l’inizio dell’intervista, quando alla domanda di dare una definizione di se stesso papa Bergoglio risponde: “Sono un peccatore al quale il Signore ha guadato”. Non è premessa pietistica che un prete deve fare quasi professionalmente. È il cuore della questione: il campo di battaglia del mondo contemporaneo è pieno di feriti che – consapevolmente o no poco importa – implorano quello sguardo.