Perdere la pace

L'esercito degli Stati Uniti è il più potente del mondo, non ha rivali. Ma ha un difetto: dopo aver vinto la guerra gli americani perdono sempre la pace. ROBI RONZA

Ancora una volta le sorti della pace e della guerra dipendono dalla mancata soluzione del problema fondamentale che ormai da alcuni decenni attanaglia la superpotenza americana, e che pure Obama sembra incapace di risolvere: quello di disporre di una forza militare smisurata e invincibile, che però ogni volta che viene usata provoca non solo enormi distruzioni nell’immediato ma anche squilibri socio-politici e sconquassi di ogni genere, che poi gli Usa non riescono affatto a gestire. C’è purtroppo un baratro tra la capacità con cui riuscirono a muoversi in Germania (anche in Italia) e in Giappone al termine della seconda guerra mondiale e i tragici pasticci che hanno caratterizzato tutti i dopoguerra dei conflitti in cui si buttarono successivamente, dal Vietnam all’Afghanistan, all’Iraq, e così via. Occorre perciò impegnarsi in ogni modo perché adesso con la Siria non facciano un’altra frittata. Purtroppo oggi l’Europa è l’ombra di se stessa, ma ciononostante, sperando malgrado tutto, ci si deve augurare che, tra l’altro nel quadro dell’imminente incontro del G20 a San Pietroburgo, si riesca a trovare una via d’uscita equa e ragionevole dalla crisi siriana evitando un attacco americano che avrebbe esiti più che mai catastrofici. 

Più ci si occupa da vicino di queste cose e si vede il vortice di forze negative che entrano in gioco in circostanze del genere, più si tocca con mano che la pace è un dono, e non qualcosa che riusciamo a fare con le nostre sole forze. Perciò la giornata di digiuno e di veglia mondiale di preghiera per la pace, indetta per questo sabato da papa Francesco, non è solo un’iniziativa toccante ma anche qualcosa cui partecipare toto corde è molto ragionevole.

Con un bilancio che ammonta a circa il 50 per cento della spesa mondiale per armi e forze armate, l’apparato militare degli Usa è – dicevamo – di una potenza smisurata. Nessun altro Paese è minimamente in grado di sfidare gli Stati Uniti in una guerra in campo aperto. Certo, la guerra è un mostro feroce che comunque esige sangue e lacrime anche da parte del più forte. Pure nelle file dei vincitori c’è chi muore, chi resta invalido, chi esce dal conflitto fisicamente illeso ma psichicamente distrutto, chi perde casa e lavoro. Come tutti i Paesi imperiali che nella storia l’hanno preceduto, gli Usa sono però culturalmente (oltre che tecnicamente) attrezzati per reggere il costo umano della quota di tributo di sangue e di lacrime che incombe sul vincitore; e sono sempre pronti a pagarlo. Diversamente che per un Paese come il nostro – che per esempio manda soldati in Afghanistan ogni volta sorprendendosi che qualcuno torni chiuso in una bara – tale eventualità non costituisce per gli Usa un freno alcuno alla prospettiva di dare ancora una volta voce alle armi. 

Usando e confrontando dati che peraltro sono pubblici, e oggi subito accessibili tramite Internet, per dare un’idea dell’immensa superiorità militare americana ci soffermiamo qui per brevità  sulla Marina, da cui dipende la capacità degli Usa di intervenire militarmente in qualunque parte del mondo. La Marina degli Stati Uniti, forte di oltre 300mila uomini e donne in servizio attivo, dispone di 283 navi e di circa 3700 aerei, ed è organizzata in sei flotte, ciascuna delle quali presidia un diverso oceano o mare del mondo potendosi tra l’altro appoggiare su più di 800 basi e altre installazioni militari all’estero situate in 39 diversi Paesi. Il nucleo della sua capacità di attacco strategico è costituito da dieci portaerei, ciascuna da 100mila tonnellate di stazza o più. A queste dieci in piena attività se ne aggiungono alcune altre tenute di riserva. Nessuna altra Marina del mondo ha nemmeno una sola nave del genere. 

Analoghi paragoni si potrebbero fare a proposito di forze terrestri, forze aeree e così via, ma la conclusione non potrebbe in ogni caso che essere la medesima: non esiste oggi alcuna altra potenza militare minimamente paragonabile a quella degli Usa. A ciò si aggiunga che gli Stati Uniti controllano  totalmente l’intera rete telematica del globo, strumento indispensabile per il movimento di vettori di armi strategiche e per il puntamento nonché la guida sull’obiettivo di tali armi. Ne consegue tra l’altro che nessun Paese, anche se riuscisse a disporne, sarà mai in grado di lanciare missili a testata nucleare contro gli Usa o dei loro alleati. Al di qua o al di là di qualsiasi barricata tutti i proverbiali “addetti ai lavori” lo sanno benissimo, sia nel campo degli amici che nel campo dei nemici di Washington (compreso l’Iran, tanto per citare un caso di attualità). Pertanto si deve temere l’ampliarsi dei conflitti e si deve mantenere ed accrescere la capacità di contrastare il terrorismo, ma non ci sono affatto le condizioni che nel secolo scorso condussero alle guerre mondiali. Sui campi di battaglia del nostro tempo gli Stati Uniti non possono che vincere. 

L’esperienza degli ultimi decenni dimostra tuttavia che gli Usa, dicevamo, dopo aver vinto la guerra… perdono la pace. All’ombra di una superiorità militare americana che è assoluta, risolvere per via diplomatica la crisi siriana è invece possibile. Preghiamo e operiamo perché così sia.

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