È ben vero che – come dice l’adagio popolare – l’Epifania (giusto una settimana fa) tutte le feste le ha portate via. Sarebbe però un peccato se ciò significasse soltanto che al frizzante sommovimento dei giorni natalizi deve seguire l’immota opacità di quelli normali e alla luminosità (anche fragorosa, come a capodanno) delle feste un’oscura normalità. Proprio di luce ha parlato papa Francesco nell’omelia del 6 gennaio, sollecitandoci a non scordarci di quella che abbiamo visto o anche solo presentito a Natale. Come è accaduto ai Magi: «Il loro esempio ci aiuta ad alzare lo sguardo verso la stella e a seguire i grandi desideri del nostro cuore. Ci insegnano a non accontentarci di una vita mediocre, del “piccolo cabotaggio”, ma a lasciarci sempre affascinare da ciò che è buono, vero, bello».

Citando un antico inno liturgico, Francesco ha detto che i Magi hanno indefessamente cercato (requirunt) la luce (lumen) seguendo un’altra luce (lumine), che è certamente imparagonabile con la prima eppure è la via per avvicinarvisi. Come dire che anche nel cammino difficile ed opaco (e la famosa crisi non evita di ricordarcelo quotidianamente) ciò che conta è l’attenzione che dedichiamo a scorgere i segni luminosi che il buio non riesce ad inghiottire. Essi sono mesi sulla strada proprio per confermarci che i «grandi desideri del nostro cuore» non sono un’illusione passeggera, una favola che va bene per i bambini come quella di Babbo Natale o della Befana, un’infatuazione adolescenziale da cui riprendersi con la cinica sapienza dell’uomo adulto. Sono esattamente quelle scie di luce che sono riverberate in noi a Natale o iniziando il nuovo anno; anche se poi sono state immediatamente ributtate in lontananze irraggiungibili.

Un’altra strofa di quell’inno descrive bene come mai troppo spesso l’uomo si accontenta del «piccolo cabotaggio». Lo fa ponendo una domanda ad Erode, il re crudele che si è spaventato della stessa stella che aveva invece rallegrato i Magi: «Perché hai paura?». Temi forse che avere prospettive grandi ti faccia rinunciare ai piccoli piaceri? Che lasciarti «affascinare da ciò che è buono, vero, bello» in termini assoluti e totali sminuisca o addirittura annienti le piccole bontà, verità e bellezze che ti sembrano più a portata di mano? L’inno invita a non temere la grande luce con due versi bellissimi: «Non eripit mortalia / qui regna dat caelestia»: non strappa via i possessi mortali colui che dona quelli celesti. Dove «celesti» non significa «dell’aldilà», ma indica quella profondità per cui stanno salde proprio le cose mortali. Senza il legame col «celeste» esse – mostrando inesorabilmente la loro inadeguatezza al «grande desiderio» – smettono di essere segni indicatori del cammino e finiscono per produrre un attaccamento morboso che diventa schiavitù. Come, appunto, Erode, così avvinghiato al suo «regno» mortale da trasformarsi in efferato assassino di piccoli bambini innocenti per tentare – inutilmente – di conservarlo.