La disoccupazione tra i giovani tra i 15 ed i 24 anni che cercano un lavoro è arrivata al 41,6%: è il suo massimo storico dal 1977, anno in cui l’ISTAT aveva cominciato a prenderla in considerazione (prima di questa data il problema non era nemmeno percepito). Ciò che tuttavia deve preoccupare ancora di più è la reazione emersa in una parte non indifferente dell’universo giovanile: sono infatti quasi due milioni (1,9) le persone tra i 15 ed i 29 anni che, dopo aver terminato o abbandonato gli studi, hanno smesso di cercare un lavoro. 

Si sta pertanto affermando la tendenza a lasciar perdere la ricerca di un’occupazione in attesa di tempi migliori, quando non addirittura a rinunciarvi del tutto. A differenza di quanto accadeva nelle crisi che si sono prodotte nel passato, oggi il lavoro sottopagato e precario non è più visto come un passaggio intermedio, una sistemazione provvisoria in attesa di un futuro realizzabile, bensì come una palude senza vie d’uscita. Più dell’occupazione precaria il vero dramma sembra allora essere quello del futuro che scompare dalla fine del tunnel. Il percorso tradizionale che portava dalla scuola al lavoro e da questo alla realizzazione del proprio progetto di vita – per molto tempo percepito in modo automatico – sembra oramai conoscere una serie infinita ed insostenibile di interruzioni e di fratture che lo rendono evanescente e, proprio per questo, improponibile. 

Ad una simile visione disincantata della realtà viene in pericoloso aiuto il relativismo culturale. All’odierno vocabolario della rinuncia, la filosofia del “tutto si equivale” fornisce principi di legittimazione tanto seducenti quanto pericolosi. Affermazioni quali: “nessun progetto per la propria esistenza è in realtà assolutamente necessario”, “il futuro può essere deciso anche giorno per giorno”; “nel quadro di una rivalutazione del quotidiano e delle opportunità che in questo si presentano, la vita alla giornata può, in fin dei conti, essere una prospettiva valida” costituiscono opinioni diffuse e condivise. Una volta data per ovvia la perdita di centralità di principi, tutto può essere ammissibile, anche il lasciar perdere, l’abbandonare ogni progetto, qualunque esso sia.

La differenza con quanto è accaduto nel passato è evidente: l’essere senza lavoro in un Paese opulento, reduce da decenni di consumo di massa ed ancora fondato sulle conquiste di chi ci ha preceduto, una volta in presenza di una tale filosofia dell’indifferenza, dove ogni desiderio è ridotto al banale possesso di beni, produce delle vere e proprie “periferie esistenziali” che si accumulano non ai margini bensì al centro, non tanto tra gli esclusi quanto tra gli eredi di questo stesso benessere diffuso. 

Non siamo tanto dinanzi ad un processo di esclusione bensì – ed in modo molto più grave – di fronte ad un formidabile percorso di inazione generalizzata, nel quale si “cade indietro” e si afferma un’economia dell’indifferenza, dove è proprio la “vita insulsa” (il termine è di Don Giussani) cioè la vita che non ha né può avere senso, a prevalere. I cantori dell’indifferenza delle scelte, i nuovi “mangiatori di loto” della società post-moderna, diffondono il loro paradigma relativista nei luoghi del benessere di massa, nei centri consolidati delle piccole sicurezze, legittimando l’abbandono.  

Se sul piano politico il problema della disoccupazione giovanile è al centro delle preoccupazioni di tutte le forze parlamentari ed è ragionevolmente prevedibile, a medio termine, un suo recupero sia pur circoscritto, è comunque abbastanza evidente come esista oramai un problema di tipo culturale al quale è necessario fare fronte. Si sta infatti affermando una “riduzione esistenziale”, una filosofia della rinuncia che conduce alla progressiva incapacità di vedere come plausibile un progetto di vita che orienti la propria stessa esistenza, un orientamento di pensiero che rende indifferenti verso la ricerca della propria vocazione, fino a giudicarla come semplicemente inesistente. Dietro la rinuncia a cercare il lavoro è quindi in opera una svalutazione del progetto, ma dietro a questa si erge la dissoluzione dell’io: una dissoluzione tanto più diffusa quanto più prevale la tendenza a ritenersi figli della casualità e del fato. 

Diviene allora importante recuperare il progetto educativo che ci ricorda come la “vita insulsa”, cioè la vita senza progetto né destino, sia semplicemente una vita non umana. Diviene decisivo accompagnare la ricerca di posti di lavoro per i giovani con il recupero del diritto di ciascuno a definire il proprio progetto di vita, a recuperare un’identità dispersa nella ricerca del benessere immediato del “qui ed ora”, superando il disincanto alla luce del quale ogni progetto appare evanescente, ogni pretesa alla vita piena appare utopica, mentre invece è l’unica vita possibile, l’unica a rivelarsi degna di essere vissuta.