La vexata quaestio del 5 per mille è tanto semplice quanto, sembra, irrisolvibile.
Il 5 per mille, unica norma di sussidiarietà fiscale di questo Paese che permette ai cittadini di scegliere la destinazione del 5 per mille dell’imposta dovuta allo Stato, introdotta con la finanziaria 2006 (dicasi duemilasei) non è mai diventata norma fiscale, ma è da otto anni appesa alle leggi di stabilità che si susseguono di anno in anno, con risorse e regole incerte.
Così, in un sol colpo, lo Stato da molti anni si fa beffe dei contribuenti (17milioni di contribuenti hanno scelto di avvalersi dell’atto sussidiario) e delle organizzazioni non profit o di ricerca scientifica, giacché da anni il 5 per mille (così è scritto sui moduli Irpef) si riduce di volta in volta al 4,5 o 4 per mille. E lo Stato lo fa anche nascondendo la mano. Solo nel giugno scorso il ministro Fassina (che certo non rimpiangeremo) ha ammesso che sì, lo Stato si è scippato in due anni (2010-2011) 172 milioni che i contribuenti volevano destinare al settore non profit. E l’ultima legge di stabilità, targata Letta, persegue sulla stessa lunghezza d’onda, ponendo un tetto alle risorse a copertura della volontà dei contribuenti a 400 milioni, quando invece negli ultimi anni l’ammontare delle scelte si è aggirato intorno ai 480 milioni. Ovvero questa volta lo scippo è dichiarato ex ante.
Persino l’organismo dei magistrati contabili, la Corte dei Conti, organismo prudente, lento e di certo non famoso per il suo coraggio, ha licenziato poche settimane fa un lungo documento di analisi sul tema e si è espresso in maniera non equivocabile: “La mancata stabilizzazione dell’istituto del 5 per mille attraverso una legge organica – in grado di garantire la certezza delle risorse nel corso di un arco temporale ragionevole e la definizione di tempi certi per l’erogazione dei fondi – ha prodotto inefficienze ed inutili appesantimenti burocratici. Il quadro normativo dell’istituto risulta confuso e inadeguato. Le attività di coordinamento, controllo e garanzia delle amministrazioni interessate appaiono insufficienti. Il tetto di spesa annuo è in contrasto con le determinazioni dei contribuenti, riducendo, di fatto, la percentuale del contributo” (corsivo nostro).
Ora, ciò che toglie la voce se non spesso la forza anche a chi qui scrive è che su un provvedimento atteso da anni, su cui tutti sono d’accordo (Enrico Letta e Maurizio Lupi il 21 aprile 2012 – quasi due anni fa – indirizzarono al direttore del Corriere della Sera una lettera aperta pubblicata integralmente dal titolo “La rivoluzione del 5 per mille non più precario”), governo e partiti tutti, che si sistemerebbe con una leggina di tre articoli al massimo, non si sia ancora giunti a una soluzione.
E non si dica che non ci sono soldi, perché è una menzogna totale. Ho personalmente indicato al Governo in carica come si potevano trovare non 80 milioni ma 2 miliardi tagliando sprechi amministrativi e contabili, e facilmente.
Matteo Renzi, che sarà pure un bullo ma che ha il pregio di parlare chiaro e in faccia, nella direzione del partito di giovedì ha detto una grande verità quando ha sottolineato tra i vari fallimenti che “questo Governo continua a umiliare il Terzo settore”. E lo ha detto citando proprio il caso del 5 per mille, su cui vuole un impegno preciso nel patto di Governo, e sul decreto riguardante la nuova modalità di finanziamento dei partiti che per decreto istituisce un 2 per mille certo e regolato (quando al non profit non sono bastati 8 anni!) e che avvantaggia le donazioni ai partiti prevdendo una detraibilità superiore di 12 volte! A questo proposito è bella la campagna del non profit che invita le Onlus a trasformarsi in Partito.
A me pare che le vie di questa democrazia si siano così complicate da snaturare la sostanza stessa della vita democratica. È come se le procedure e gli incroci normativi che si stratificano e si ingarbugliano di anno in anno, le norme per decreto e provvisorie che cambiano di mese in mese e di legge di stabilità in legge di stabilità, avessero mangiato ogni parvenza di trasparenza, di logica e perciò anche di efficacia e, soprattutto, di responsabilità delle decisioni. Non si spiega altrimenti l’ignavia su questo tema di un Governo che è stato giustamente definito, al suo debutto, il primo Governo di sussidiarietà nazionale, essendo molti suoi ministri e viceministri i protagonisti dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà nella scorsa legislatura.
I cittadini, le organizzazioni, molti deputati continuano la loro pressione, ma pare che dall’altra parte non ci sia più nessuno.