La post-modernità si trova a vivere due grandi handicap: l’individualismo e il comunitarismo sfrenato. Queste due condizioni non hanno niente di filosofico, ma sono il contesto entro il quale normalmente poniamo le nostre fatiche e le nostre difficoltà. 

Mi stupisce sempre, infatti, come la condizione ordinaria di molte persone e famiglie sia la solitudine. Di fronte ai problemi della vita, grandi o piccoli, che tutti abbiamo non si può pensare che le cose si metteranno “a posto” da sole né che le difficoltà debbano essere vissute in un orgoglioso riserbo che spesso è nutrito dalla paura di essere peggiori dei nostri padri o dalla convinzione, malsana, che il valore di un uomo si misuri nella capacità che ha di “stringere i denti” di fronte alle avversità. Tutti questi “sentimenti della vita” ci condannano, ci imprigionano, ci portano verso gesti estremi o rabbie inconfessabili. Eliminano, insomma, il gusto del vivere. 

Eppure non è che la questione si risolva solo perché uno si relaziona con una comunità. Spesso la comunità diventa più problematica del problema stesso e accentua le difficoltà invece di alleviarle. Succede quando noi deleghiamo gli altri. 

Mi preoccupano tutti coloro che pensano che saranno gli amici a tirarli fuori dai guai. A volte c’è gente che apre negozi o attività commerciali pensando che gli amici ne garantiranno in qualche modo il funzionamento e il successo. Ci sono persone, poi, che individuano esperti in ogni settore dell’esistenza e che pensano che risolvere i propri problemi altro non sia che farsi pellegrini dei loro santoni. Tutto questo è ovviamente deresponsabilizzante e presuppone che l’amicizia – o la comunità – siano fondate su un patto di scambio (io ti dò la mia adesione, tu mi dai i tuoi favori) che è lontanissimo da ogni logica relazionale seria e matura. 

Proprio queste dinamiche, a volte distorte, ci illudono che si possa risolvere tutto con un “colpo di teatro”: una clamorosa rottura – nell’amicizia o nei legami affettivi – spesso sembra essere la panacea di tutti i mali. Ma le rotture non risolvono niente: sostituiscono solo la fatica della relazione con una capricciosa affermazione di sé. Un pó come quando uno dice: “Da domani” smetto di fumare, mi metto a dieta, cambia tutto. Mai un unico gesto, di volontà o di rottura, risolve tutto. Le discontinuità a volte servono, ma solo se permettono rinnovate continuità, solo se permettono che i problemi o le dinamiche siano realmente affrontati. 

La comunità, tuttavia, può davvero fare molto per le persone. Anzitutto stando zitta. A volte sembra che se uno “dice” il suo problema in un determinato contesto, tutto è finalmente risolto o affrontato. 

Sapere le cose, vivere una sorta di “comunismo dei fatti propri” sarebbe la vera via d’uscita. Purtroppo sappiamo fin troppo bene quanto questo “comunismo” produca soltanto delazione, chiacchiera, pettegolezzo o − molto spesso − ingerenza spirituale. Non c’è un contesto, per quanto santo o legittimato dall’alto, che debba mai sentirsi autorizzato a gestire, a commentare, a disquisire della vita di un altro. 

A ben vedere, in fondo, quello che a noi manca è una reale stima della persona. Quando abbiamo un problema il nostro interlocutore non è la comunità, ma la realtà. E lo strumento con cui entriamo nella realtà non può essere ridotto alla nostra singola azione, ma deve sempre essere il “paragone”, il “giudizio”. Ognuno di noi ha un cuore e una coscienza: è da lì − da ciò che scelgo io a partire dal mio cuore e dalla mia coscienza − che la vita riparte. Se noi non impariamo a partire dall’esperienza prevarrà sempre in noi o l’individualismo titanico delle nostre azioni o il bisogno di appoggiarci ad un altro per vivere, il comunitarismo sfrenato. Il titano però, nella mitologia, non è altro che un Dio abbandonato a se stesso. L’uomo che vive sui giudizi degli altri, invece, non è che una bomba pronta ad esplodere. 

Solo l’esperienza ci può restituire dignità e maturità umana. Solo un Io che sceglie di esserci può vivere la comunità e l’amicizia in modo sano. È davvero questo il tempo della persona. In casa, in Chiesa, in politica. Un tempo, senza dubbio, complesso ma − proprio per questo − meraviglioso.