Di solito all’approssimarsi di un importante centenario che riguarda uno scrittore prendono il via iniziative di diverso tipo: si comincia a scriverne sui giornali, la televisione mette in cantiere uno speciale, le università pensano ad un convegno, gli editori programmano ristampe o nuove e più aggiornate edizioni. Temo che poco o nulla di tutto questo avverrà per celebrare i cent’anni della morte di Charles Péguy, che cadrà il prossimo 5 settembre. Si potrebbero certo addurre giustificazioni di carattere storico, culturale, letterario, persino biografico, ma avrebbero tutte il difetto di non cogliere adeguatamente nel segno. Il fatto è che Péguy è un autore troppo scomodo, un «incontemporaneo» per usare la fulminea definizione di Alain Finkielkraut. Dove questa parola sta a indicare non un pensiero «sorpassato», bensì talmente diverso da quello cui siamo abitualmente immersi che ci costringe a spostarci dalla nostra posizione, a fare i conti con un punto di vista inatteso, a dare un peso diverso a parole di solito usate con ovvietà superficiale. E questo vale sia che si leggano le sue pagine sul «mondo moderno» (del quale offre una lettura estremamente attuale), sia che si affrontino quelle in cui mette a tema la sua fede. A questo proposito non si può non ricordare quanto ebbe a scrivere di lui Von Balthasar: «Non si è mai parlato così cristiano». Ma – appunto – «parlare cristiano» è la cosa meno ovvia e scontata, meno facile e frequente nella mentalità corrente; compresa quella di tanti che pur cristiani si dichiarano.

Per contribuire a colmare, per quanto posso, questa lacuna, ho pensato di riservare l’ultimo editoriale di ogni mese da qui a settembre a presentare Péguy. Persino negli ambienti in cui lo scrittore francese non è un illustre sconosciuto, infatti, di lui si conoscono pochi spezzoni di opere, qualche frase famosa, e quasi niente della sua biografia e della ricchezza dei suoi scritti. 

La premessa è stata lunga e mi resta solo lo spazio per parlare dell’infanzia di Péguy, nato ad Orléans il 7 gennaio 1873, in una famiglia povera, e per di più rimasto orfano di padre quando aveva meno di un anno. Ha frequentato le scuole che noi chiameremmo elementari, da poco diventate in Francia obbligatorie, e vi ha ricevuto l’educazione prevista dai riformatori della Terza Repubblica: forte senso del dovere, dedizione alla patria, sostanziale rassegnazione alla propria condizione sociale. In parallelo il piccolo Charles frequentava il catechismo in parrocchia, anch’esso sostanzialmente incentrato sui principi morali e sulla pratica delle semplici devozioni del popolo. 

Rimasta vedova, la madre di Péguy ha dovuto ingegnarsi per mantenere se stessa, il figlio e la sua propria madre che viveva con loro; per questo si è data all’attività – che un giorno il figlio renderà celebre – di impagliatrice di sedie; attività che negli anni le ha permesso di allontanarsi dal baratro della miseria e si sistemarsi in un povero ma sicuro orizzonte di benessere. Nel quale rientrava, secondo le sue previsioni di madre, anche il futuro del figlio, che sarebbe potuto addirittura – enorme salto sociale! –diventare maestro. Ma il piccolo era molto bravo a scuola e il direttore gli ha trovato una borsa di studio per fare ben altro salto: iscriversi al liceo classico per poi andare all’università. 

Per il momento fermiamoci qui, di fronte all’immagine di un ragazzino cresciuto nella povertà, educato con rigore, devoto come può esserlo un buon parrocchiano, di fronte al quale improvvisamente si apre un mondo sconosciuto ai suoi avi, il «mondo moderno» e la sua cultura.