Un’iniezione letale eseguita nei primi di gennaio su di un condannato a morte in Ohio di 53 anni, Dennis Mc Guire, ha avuto un esito inatteso. L’adozione di un nuovo farmaco nella composizione gli ha provocato un’agonia straziante durata un quarto d’ora e registrata dai presenti. Tra questi c’erano anche i suoi due figli. Qualche giorno più tardi, in Oklahoma, un’altra sentenza capitale è stata eseguita servendosi di un farmaco solitamente usato per la soppressione degli animali malati, con la conseguenza di provocare dolori atroci. Negli Stati Uniti il ricorso a iniezioni letali per la pena di morte usando farmaci diversi dal tradizionale pentobarbital si sta facendo più frequente da quando diverse cause farmaceutiche hanno deciso di ricorrere all’obiezione di coscienza.
Le reazioni di sdegno per l’uso di soluzioni letali non appropriate sono state tanto più forti quanto più è stato reso noto come Mc Guire – responsabile nel 1989 di violenza carnale ed omicidio di una donna incinta – fosse stato a sua volta vittima di abusi sessuali da bambino. Il delitto è orribile come lo è la punizione inflitta: una morte disumana per un reato sconvolgente che, a sua volta, è il punto d’arrivo di una biografia raccapricciante. Una catena di dolore infinito, ripetuto e rilanciato, di generazione in generazione; una riproduzione sistematica del male, nel cuore di una collettività che non sa esserci.
A tal proposito il segretario dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” ha parlato di “sistema arcaico e barbaro” di fare giustizia. Resta da chiedersi perché ci sia ancora il ricorso alla disumanità della pena di morte quando siamo nell’epoca del trionfo dei sentimenti umanitari. Perché sia ancora così semplice essere “disumani”.
Nel suo libro L’humanité perdue, Alain Finkielkraut ricordava come, per uccidere un uomo, ai militari dei campi di concentramento fosse in primo luogo necessario togliere a quest’ultimo la sua umanità, occorresse dimenticarsi del suo carattere umano. A tal proposito cita la testimonianza di Primo Levi che, dinanzi al dott. Pannwitz, fa l’esperienza di non essere più guardato come un uomo, bensì come una non-persona. Per poter uccidere è indispensabile dimenticarsi dell’umanità di chi si sta uccidendo. L’iniezione letale avrebbe dovuto produrre un passaggio dalla vita alla morte senza urla, quindi senza dolore, senza richiamare l’umano che ancora esisteva. Tuttavia la pura meccanica biologica non ha funzionato come avrebbe dovuto: i lamenti inattesi, trasformando la morte rapida in una lunga agonia, hanno sottratto Mc Guire all’estinzione indolore ricordando a tutti la verità della sua umanità.
La pena di morte reintrodotta recentemente in Ohio costituisce la prova di quanto la negazione dell’umano sia sempre a portata di mano. La pena di morte illude tutti: dai parenti della vittima, ai quali viene fatto credere nella possibilità di arginare un dolore che in realtà resta aperto; alla comunità, che crede di poter mascherare la sua inconsistenza sociale con l’affermazione del proprio potere di vita o di morte; al condannato stesso, al quale viene fatto credere di essere “irredimibile” e quindi, proprio per questo, irrecuperabile.
La verità è che nessuno è mai realmente irredimibile: Mc Guire aveva forse un cammino da compiere e un destino da realizzare. Quanti credono non possono escludere la possibilità di un disegno di un Altro per quest’uomo, perso nel male che prima lo ha colpito e poi lo ha travolto rendendolo responsabile di altro male. Con la pena di morte, si è preferito togliere all’Altissimo questa possibilità, così come è stata tolta a Mc Guire quella di espiare una pena, di interrompere la catena del male in modo diverso dalla soppressione della sua vita. Ma anche ai famigliari della vittima è stata negata l’umanità: la sorella della donna violentata e uccisa meritava di più di una semplice rivalsa, avrebbe dovuto trovare l’abbraccio di una comunità e l’aiuto ad una vita da ricostruire. L’esecuzione della pena capitale ha negato tutto questo: l’umanità si è rivelata un bene non disponibile.