Un mistero impagabile

Un figlio che arriva a definire il rapporto con un padre, morto dopo ben 25 anni di coma, "un'impagabile esperienza". Quella vissuta da Giovanni Ederle. GIUSEPPE FRANGI

Le parole a volte assumono sfumature così preziose, da non riuscir più a staccarci da loro. È di ieri uno stupendo quanto semplicissimo esempio: un figlio che arriva a definire il rapporto con un padre, morto dopo ben 25 anni di coma, «un’impagabile esperienza». L’«impagabile esperienza» è quella vissuta da Giovanni Ederle che aveva appena due anni quando il padre Francesco, colpito da un ictus, entrò in quella condizione vegetativa da cui non sarebbe mai più uscito. Due giorni fa Francesco è morto e tutta la sua storia è così salita alla ribalta delle cronache, in questo modo così spiazzante e umanamente commovente. Come può essere «un’esperienza impagabile», trovarsi con un padre che, come racconta Giovanni, «ha dormito» per 25 anni? Nel caso della famiglia Ederle qualche piccola spiegazione la si può trovare: Francesco, il padre, veniva da una famiglia che viveva della campagna e prima di quel drammatico giorno aveva iniziato una serie di attività per il tempo molto innovative, che poi il figlio ha continuato. «In tanti che mi dicono che faccio le cose come le avrebbe fatte lui», ha infatti detto Giovanni, «lui non parlava, dormiva. Eppure se non ci fosse stato non avrei imparato tante cose…». 

Ma evidentemente è un piccolo appiglio, che non può rendere ragione, se non in minima parte, della vastità connessa con qualcosa definito come “impagabile”. Impagabile è qualcosa che non ha prezzo, che addirittura non s’accetta di scambiare con nient’altro. Paradossalmente, nel caso di Giovanni, significa che lui non ha sentito nessuna diminuzione nel rapporto con suo padre, che non si è sentito derubato di un affetto o di un diritto. In virtù di cosa questo che nella mentalità comune verrebbe schedato come disgrazia, si è trasformato in ricchezza (“impagabile” sottende infatti anche questa accezione)? Si potrebbero trovare risposte che rischiano però di essere schematiche all’opposto. Aprioristicamente capaci di risolvere drammi che la vita ci mette davanti.  

È sbagliato cercare formule che diano ragione di esperienze come quelle di Giovanni Ederle; cose come queste accadono per il riaffiorare di quel mistero buono che sta al fondo della vita. E quindi la domanda, di rimbalzo, si rovescia (e ci riguarda tutti): perché non sappiamo più fare spazio a questo mistero buono nelle nostre case, nei rapporti che costituiscono le nostre giornate? Nella relazione con i nostri figli o i nostri padri?

In un giorno non lontano da quello che segnò la vita di Francesco Ederle un grande intellettuale, Giovanni Testori, scriveva queste righe sul Corriere della Sera, commentando un fatto di segno opposto, un delitto tragico accaduto all’interno di una famiglia. 

«Il gesto di Luca (il ragazzo che aveva ucciso la madre, ndr) è come l’ingrandimento macroscopico e crudele di quanto, giorno per giorno, viene roso tra i muri in cui abitiamo; e anche di quanto irrigidisce e blocca, nelle nostre case, le nostre parole (che hanno pur sempre un margine infinito di salvezza), sostituendo ai nostri, discorsi e parole d’altri; e che ai nostri visi guardati e scrutati nel loro quotidiano mutare, antepone il freddo e l’astrazione di immagini esterne che ci arrivano da non sappiamo quale disegno, ma che certo ci inducono, giorno per giorno, a disimparare a costruire il disegno faticoso, e però reale, della nostra esistenza. Un’estraneità subdola, fredda, lucida e ostinata s’insinua attraverso i mezzi di ciò che chiamiamo benessere. Ma l’uomo non può vivere estraneo agli altri, proprio come non può vivere estraneo a se stesso. In effetti, la doppia estraneità risulta una sola; e ha origine nel continuo, cieco e demenziale sforzo di estraniarci dal nostro stesso senso: che per l’appunto, è una casa: la casa del Padre».

Casa, padre, e la libertà di dire parole “sue”, come quell’aggettivo che non potremo facilmente scordare: qui sta il cuore dell’esperienza impagabile di Giovanni Ederle, figlio di Francesco.

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