Personalmente sono reduce da un’esperienza che mi ha molto colpito: in occasione dei 20 anni dalla morte di Testori, come Associazione abbiamo pensato di promuovere iniziative nella periferia della città in cui ha vissuto, cioè Milano, anziché nei canonici luoghi “deputati” per la cultura nel centro città. È stata l’occasione di scoprire cose che uno non s’aspetta, come la vitalità e la capacità di iniziativa delle biblioteche rionali, che pur nella pochezza dei mezzi riescono ad essere luoghi di cultura concretamente vissuta. E anche i numeri confermano: alla biblioteca di Affori, periferia nord di Milano, si fanno più prestiti di libri che nella centralissima biblioteca Sormani…  

È solo una piccola esperienza personale, che però si ricollega a due input assolutamente autorevoli che negli ultimi tempi hanno rimesso al centro il tema delle periferie. Il primo input è naturalmente quello arrivato a ripetizione in questi mesi da papa Francesco (e che ha convinto gli organizzatori del Meeting a mettere le periferie nel tema della prossima edizione). Il secondo input è arrivato da Renzo Piano, grande architetto, che ha deciso di devolvere il suo stipendio di neo senatore a vita a un pool di sei giovani architetti incaricati di avviare una riflessione innovativa sul futuro delle periferie. «Nel centro delle città vive solo il 10% della popolazione urbana», ha ricordato Piano. «Ma noi continuiamo a pensare e progettare solo per il centro. Invece l’energia oggi è in periferia».

In genere si guarda ai grandi quartieri che circondano le nostre città come a degli immensi serbatoi di problemi e di tensioni sociali. Il racconto che emerge dall’informazione va sempre e ostinatamente in questa direzione: i riflettori infatti si accendono solo quando la cronaca nera o le emergenze sociali chiamano. C’è una sorta di preconcetto, da vecchia cultura sociologica, che grava sulle periferie e che a volte pesa più delle contraddizione che pur si trovano a vivere e ad affrontare.

Le  cose non stanno esattamente così. Un’inchiesta realizzata dal mensile Vita nell’ultimo numero, ha rivelato ad esempio che nella “terribile” Quarto Oggiaro, altro quartiere a nord di Milano nei mesi scorsi al centro di cruenti regolamenti di conti tra bande, c’è la più alta concentrazione di associazioni e organizzazioni non profit in Italia (e c’è pure una biblioteca rionale capace di progetti molto belli per accompagnare i bambini alla confidenza con i libri).

C’è nello sguardo di papa Francesco e di Renzo Piano sulle periferie un punto comune che colpisce: tutt’e due partono dal tema della fragilità. È in questi luoghi che l’uomo di oggi sperimenta in modo più drammatico la fragilità, anche quotidiana, dell’esistenza. È una dimensione che viene sottolineata dal degrado in cui le periferie si trovano, dalla mancanza di infrastrutture e di luoghi in cui stare insieme. Eppure questa fragilità è anche una condizione che sviluppa un desiderio di qualcosa di diverso. Se il Papa invita così insistentemente a rivolgersi alle periferie dell’esistenza non è solo per un’attenzione caritatevole, ma perché lì c’è un’esperienza di povertà che riporta tutti alla verità dell’umano. 

Le periferie non sono certo luoghi incantati. Ma sono luoghi spesso straordinariamente vitali, a cui finalmente dare credito. Perché il nuovo che cambierà le nostre città e che consoliderà stili e modelli di vita meno irrazionali e ingiusti di quelli che ci hanno portati a questa crisi, si genererà certamente da lì. Nelle periferie c’è la vita, bella o brutta che sia. C’è la vita sconfitta, c’è la vita povera. Ma c’è anche la vita giovane che il centro delle città ha sdegnosamente respinto. C’è quindi energia, voglia di cambiare, di affrontare le cose, di sperimentare soluzioni nuove. Le periferie sono la scommessa giusta del nostro futuro.