Nella discussione sulla necessità di una nuova legge elettorale dopo la dirompente sentenza della Consulta è necessario considerare la questione della riforma del bicameralismo italiano. Altrimenti si finisce per ragionare sul brevissimo periodo, diventano impossibili soluzioni adeguate a risolvere la situazione e si arrena definitivamente il Paese in quelle sabbie mobili in cui ormai da troppo tempo si trova imprigionato. E’ ora di rendersi conto che nessuna seria riforma di ristrutturazione della spesa pubblica (il disagio di Cottarelli è comprensibile) o del sistema fiscale (l’impianto del nostro sistema fiscale risale ancora oggi, quando tutto è radicalmente cambiato, alla riforma degli anni ‘70, quando “globalizzazione” era una parola ignota) sarà mai possibile in Italia se non ritornano condizioni di stabilità dei governi.

Basti pensare che mentre in Germania la Merkel ha governato per otto anni e ne ha davanti altri 4, da noi, negli ultimi vent’anni, i governi dopo i primi 6 mesi – necessari a prendere appena confidenza con gli apparati – sono entrati di fatto in crisi per tensioni nelle coalizioni e hanno dovuto mettere da parte le varie intenzioni sulle riforme e iniziare a pensare alle prossime elezioni. E negli ultimi mesi, date le molte e nuove fibrillazioni politiche, addirittura il lunedì non si sapeva se si arrivava al venerdì (il Governo Letta ha fatto fin troppo se si conta questa situazione). Complice un sistema costituzionale obsoleto nella sua parte organizzativa e il bipolarismo manicheo della Seconda Repubblica, siamo infatti ormai orfani da troppi decenni di quella stabilità che è condizione necessaria per poter affrontare processi di riforma. Se nella Prima Repubblica la vita media dei Governi è stata di 11 mesi, nella Seconda è stata di poco superiore (18) ma, è venuta a mancare la precedente stabilità di linea politica (in quel contesto, dove c’era un partito dominante, cambiavano i ministri ma la linea politica era garantita).

Anzi, all’interno di un bipolarismo troppo manicheo, le riforme di sinistra hanno buttato a mare quelle di destra e viceversa; nel paradosso di un immobilismo frenetico, la mancanza di stabilità ha impedito di consolidare le (poche) riforme colpendo le culture parassitarie e ha favorito l’ingigantirsi del potere dei corpi burocratici: l’ennesima anomalia italiana. Non è quindi ragionevole discettare di legge elettorale senza considerare questi fattori, per cui, quale sia la soluzione accolta, due Camere che devono dare entrambe la fiducia al Governo, con sistemi elettorali non coincidenti (il Senato – lo prevede la costituzione – deve essere eletto a base regionale: sono possibili quindi maggioranze divergenti) renderanno comunque precario qualsiasi governo. 

E’ necessario quindi prendere definitivamente atto che le virtù del bicameralismo paritario e perfetto voluto dall’Assemblea costituente per favorire un sistema dove nessuno potesse essere tagliato del tutto fuori dall’indirizzo politico, si sono nel tempo trasformate in difetti. L’attuale bicameralismo caratterizzato da oltre 900 parlamentari implicati, da un ostruzionismo snervante, da assalti alla diligenza (come nell’ultima legge di stabilità), da estenuanti navette tra una camera e l’altra fino alla convergenza sullo stesso testo, non è più sostenibile.

I tempi medi per approvare una legge sono ormai il doppio degli altri Paesi europei. Nel 1947 questo modello fu voluto per evitare che il vincitore delle prime elezioni politiche potesse schiacciare gli altri. Sono ragioni lontane anni luce da quelle dell’oggi, dove la riforma del Titolo V ha peraltro decentrato forti competenze senza un’adeguata sede di raccordo. Dal 2001 la Corte costituzionale ha risolto 1640 conflitti tra Stato e Regioni: non c’è legge statale o regionale che non debba attendere il verdetto della Consulta. Conservando il nostro bicameralismo, che non ha più nessuno Stato al mondo, si è perduta la stabilità e distrutta la certezza del diritto. Per questi motivi la progettazione della legge elettorale deve avvenire contestualmente alla riforma del bicameralismo, trasformando uno dei rami del Parlamento in una Camera delle autonomie, riducendo, in ogni caso, di almeno un terzo il numero dei parlamentari. Le ipotesi su cu si può ragionare sono due, entrambe accomunate dal fatto che questa Camera delle autonomie avrebbe funzioni di raccordo il sistema territoriale decentrato e sarebbe sganciata dal rapporto di fiducia, prerogativa solo dell’altra Camera: si recupera in questo modo una importante presupposto di stabilità al Governo che verrebbe a dipendere dalla maggioranza di una sola Camera eletta con un sistema omogeneo.

Una prima soluzione può essere quella di prevedere un Senato ancora ad elezione diretta, ma dove l’elezione avviene contestualmente ai consigli regionali in modo da favorire un raccordo con i territori di provenienza, e al quale partecipano anche i Presidenti di Regione. La seconda soluzione è quella di un modello tipo Bundesrat, ma dove, in considerazione della tradizione municipalista italiana, partecipano non solo i delegati degli esecutivi regionali ma anche una quota di eletti tra i Sindaci. Se questa seconda soluzione risulterebbe più funzionale ad una corretta gestione del rapporto con le autonomie, la prima avrebbe una maggiore agibilità politica. In ogni caso entrambe consentirebbero di riguadagnare un parte importante di quella efficienza istituzionale che è una condizione necessaria (anche se non sufficiente, perché tutto poi dipende dalle persone) per la rilanciare produttività, per ristrutturare la spesa e per agganciare la ripresa.