La sentenza con la quale la Corte di Strasburgo sancisce il principio dell’uguaglianza cognominale tra genitori, col conseguente diritto della madre a dare ai figli (se il coniuge è d’accordo, immagino) il proprio cognome anziché quello del padre, potrebbe farci sorridere se non presentasse alcuni risvolti antropologici di un certo interesse.
Dico subito che non intendo mettermi a parlare della “società senza padri”: su questo argomento c’è già una lunga fila di iscritti a parlare e io non amo le file.
Il primo moto istintivo è quello di scherzarci su: col mondo in cui ci ritroviamo, se il padre si chiama Chiappa o Pene – cognomi esistenti – o (come quel famoso calciatore tedesco) Strunz, be’, allora è il caso di vedere se il cognome della madre è un po’ meglio, se no per i figli rischiano di essere dolori.
Se le cose stessero soltanto così, niente da dire. Le barzellette sono piene di gente che va all’anagrafe per cambiare cognome perché il suo è impresentabile.
Qui, però, la cosa è diversa. Non si tratta di buonsenso, ma di Principi Inviolabili. Non è insomma una gita di piacere, ma piuttosto una bella parata militare.
Ci sono due motivi di inquietudine in tutta questa storia.
Posto che, se i genitori vogliono dare ai figli il cognome della madre, sono padronissimi di farlo (in questo concordo con Strasburgo e con questa bazzecola), resta da capire, innanzitutto, che tipo di società vuole essere la nostra.
Gli antropologi per esempio hanno sempre distinto le società patrilineari da quelle matrilineari. Esistono in altre parole etnie – tra cui quella ebraica – che da sempre si trasmettono per via materna: per essere ebrei è necessario (e sufficiente) avere la madre ebrea, il padre da solo non conta.
Ora, io non so bene quali compromessi abbiano accettato gli Ebrei nei venti secoli della diaspora; è comunque un fatto che la loro tradizione si sia mantenuta attraverso le più diverse legislazioni sul tema. La ragione di tutto questo è che gli Ebrei hanno sempre avuto le idee molto chiare su che tipo di società fosse la loro.
Ora, io non ho mai sentito di una società che non sa nemmeno se è patri- o matrilineare. Si tratta comunque di una novità, anche se secondo me si tratta soprattutto di una gran confusione.
Il continuo ricorso ai Diritti sta a poco a poco distruggendo il tessuto della società, o per meglio dire: ciò che la società sa di sé stessa. Sancire per esempio quello secondo il quale ognuno può mettere su famiglia come gli pare (etero, omo, regime misto, à trois, à quatre…) si può, certo, ma a patto che si abbia un’idea chiara su che cos’è una famiglia, e ancor più sul significato e sull’apporto della famiglia nell’edificazione della società. Ma tutto questo non c’è più, perché una foresta di Diritti sta divorando la città della conoscenza: ce ne accorgiamo o no?
Il mio sospetto è che la disgregazione della famiglia, alla quale stiamo assistendo con o senza sentenza sui cognomi (che il diavolo se la porti) risponda a banali esigenze di mercato (più piccola è la famiglia, più si vende) sulle quali, in un mondo senza un vero pensiero, si modellano le ideologie.
Non è un caso che tutta questa libertà, che ci piove addosso, sia in fondo una libertà coatta, ossia ci piove addosso con violenza, come un acquazzone freddo che penetra nelle ossa. Si può obbligare un uomo a essere libero? Già questo interrogativo suona come una follia.
Ma non c’è nulla di strano: quanto più una società è confusa su sé stessa, quanto più il patto sociale è in rovina, e tanto più i Diritti si infittiscono e i metodi della coazione si fanno raffinati. Fino a rendere obbligatoria (desertificandola) perfino la libertà.