Per quel che riguarda il terrorismo, la Spagna sembra rappresentare un’eccezione. La violenza di origine politica ha scosso una parte dell’Europa dalla fine degli anni ’60 fino ai primi ’90 del secolo scorso, quando diversi gruppi di giovani avevano trovato nel marxismo-leninismo distruttivo, o nell’anarchismo, una via per far traboccare il nichilismo del momento: bisognava distruggere, bisognava uccidere. Tuttavia, con il passare del tempo, specialmente dopo la caduta del muro di Berlino, questo nichilismo si è espresso in altro modo. Così sono sparite le Brigate Rosse in Italia e la banda Baader Meinhof in Germania. È rimasta solamente l’Eta, dato che l’Ira è da considerarsi un caso a parte. Il terrorismo più tardi è tornato in Europa, ma con il pretesto della jihad.
L’Eta ha continuato a vivere perché il suo stalinismo si è mischiato con il nazionalismo basco, che gli ha fornito ossigeno e nutrimento. Due anni fa i terroristi hanno dichiarato di volerla smettere con la violenza ed è abbastanza pacifico che non torneranno a uccidere, ma per l’insieme della società spagnola la fine dell’organizzazione porta con sé una sfida che richiede tutto lo sforzo possibile, dato che l’Eta non renderà facili le cose, causando ancora dolore.
Il fatto che Zapatero, appoggiato da alcuni giudici, abbia permesso ai terroristi e al loro intorno di fare politica senza che fosse chiaro se l’organizzazione si sarebbe sciolta o meno costituisce un problema. Un altro problema deriva dalla Corte di Strasburgo, che grazie a un giudice zapaterista ha annullato gli effetti retroattivi della Dottrina Parot. Questo ha fatto sì che 63 terroristi – la vecchia guardia dell’Eta – fossero rimessi in libertà. È stato un grave affronto il fatto che la maggioranza di essi si sia riunita sabato scorso a Durango (una cittadina a est di Bilbao) per una conferenza stampa, con la quale ha rivendicato in modo implicito il proprio passato (hanno ucciso oltre 300 persone), chiesto l’amnistia e l’indipendenza dei Paesi baschi. Si sono presentati come se avessero vinto una guerra contro lo Stato spagnolo. I meccanismi giuridici per proibire un fatto del genere, approntati all’epoca di Aznar, non sono stati utilizzati in questa occasione.
La fine di un’organizzazione come l’Eta, che ora ha deciso di fare politica e lo fa con successo, richiede una vera pace. E per ottenerla non si può trovare formula più precisa di quella usata nel 2002 da Giovanni Paolo II. Il Papa polacco scrisse alcune righe che sembrano stese apposta per il momento che stanno attraversando i Paesi baschi: “Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne, nonostante la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi”.
La giustizia richiede che coloro che hanno ucciso non rivendichino il loro passato, né reclamino od ottengano quello che volevano conquistare con le armi, solo per il fatto di averle abbandonate. L’ideale è che chiedano perdono, ma sarebbe già fondamentale che evitassero di “pavoneggiarsi” dopo l’uscita dal carcere. Hanno detto attraverso due comunicati che si assumono la responsabilità dei danni causati, ma lo fanno in termini puramente formali, come se ci fosse stato un conflitto tra due parti uguali. L’esperto di terrorismo Fernando Reinares, dopo aver parlato con decine di membri, nel suo libro “Patriotas de la muerte” (“Patrioti della morte”) ha spiegato che il pentimento, all’interno dell’Eta, è molto difficile, perché l’organizzazione crea un sistema ideologico ermetico. Non c’è quindi da aspettarsi una pentimento generale.
In questo contesto, il compito dello Stato è garantire il rispetto delle regole fondamentali della giustizia (i terroristi non possono apparire come vincitori). Nel frattempo conviene non rinunciare agli effetti benefici sociali e personali del perdono. Alcuni esempi sono lampanti, come quello di Carmen Hernández, a cui è stato ucciso il marito, che ha detto: “Avevo bisogno di perdonare per liberarmi. Perdonare, per me, è una liberazione”. Carmen ha partecipato al programma, avviato dal Governo basco, di incontri tra i terroristi pentiti e i famigliari delle vittime che hanno perdonato. È stato un programma limitato, ma è servito a dimostrare che un orizzonte diverso è possibile.
La giustizia dello stato di diritto non può mai colmare tutte le perdite provocate dai terroristi, il perdono sì, perché implica l’aprirsi alla giustizia dell’Infinito. È il modo migliore perché le vittime, e tutta la società spagnola, che è vittima dell’Eta, si liberino dal male.