Stavo attraversando piazza Gino Valle e, alzando gli occhi, di fronte a me ho visto che la cima del grattacielo di City Life si perdeva nella prima nebbia di autunno. Allora ho pensato… Forse, però, è necessario che io mi fermi e dia qualche informazione, cosicché anche chi non conosce Milano possa almeno immaginarsi i luoghi di cui sto parlando.
Piazza Gino Valle è la più grande della città; è appena stata realizzata su un’ampia area dismessa. Vi si affacciano tre grandi palazzi di uffici, tutti in vetro, e poco distante cinque o sei palazzine di appartamenti: alcune sono già abitate, intorno ad altre ronzano ancora operai e gru. La piazza è leggermente in discesa, per la direzione in cui la stavo percorrendo io, ed è veramente gigantesca, piastrellata a grandi mattonelle, con una specie di tettoia al centro, senza alberi. La prima volta che l’avevo vista mi aveva un po’ inquietato, come se mi trovassi in una delle piazze metafisiche di De Chirico.
City Life, invece, è il nome del nuovo quartiere che sta sorgendo nell’area della gloriosa Fiera Campionaria. Qui le residenze sono già finite, mentre delle tre altissime torri previste si sta terminando solo quella progettata da Isozaki: sembra un ciclopico materasso messo in piedi per il lato corto. Ed è proprio questo grattacielo che, quel mattino, mi ha fatto riflettere. Di settimana in settimana ne avevo visto innalzarsi lo scheletro – sorpreso dalla velocità del suo crescere: è l’edificio più alto della città –, che poi è stato rivestito di vetro. Lo vedevo sempre nitidamente delineato in tutta la sua imponente dimensione; quel mattino, invece, gli ultimi piani del grattacielo scomparivano nella nebbia dell’autunno incipiente. Allora ho pensato: «Ma quel palazzo dove va a finire?». Lo so bene che servirà per ospitare uffici, lo so bene che è uno degli elementi che stanno cambiando lo skyline della città, lo so bene che un palazzo, in fondo, non è nient’altro che un palazzo, eppure non ho potuto evitare di pensare: «Dove va quel palazzo che, seminascosto dalla nebbia, sembra perdersi nel cielo?». E subito dopo: «Dove va questa città che cambia così in fretta?». E ancora: «Dove va la gente che mi passa a fianco?». Lo so: vanno al lavoro, accompagnano i bambini alla scuola qui vicino, vanno a fare la spesa. Eppure tutte queste risposte non erano sufficienti a esaurire la domanda. Lo capivo perché inevitabilmente essa è diventata: «Dove sto andando io?».
Insomma quella cima di grattacielo nascosta dalla nebbia ha riaperto la questione del destino. Un po’ malinconicamente – sarà per via dell’autunno – ho pensato a quanto sia facile sgattaiolare da questa domanda, far finta che essa non sia rilevante, che ci sono altre questioni più urgenti cui badare. Fare così significa, però, concludere implicitamente che stiamo andando verso la corruzione.
Come le foglie che – uscito dalla piazza senz’alberi e imboccato un viale – cominciavano a marcire sotto i miei piedi. Più ragionevole mi appariva una delle parole che Emilio Isgrò ha lasciato nella sua Grande cancellatura per Giovanni Testori, la scultura situata proprio in piazza Gino Valle.
È un brano de Il ponte della Ghisolfa – che è proprio qui vicino – e l’ultima delle poche parole che si riesce a leggere allude, mi sembra, proprio all’inesauribile tensione al destino: altrove.
PS. Questa mattina, prima di inviare in redazione l’editoriale, sono ripassato da piazza Gino Valle. La nebbia è aumentata e il grattacielo non si vede più: sparito. Come accade, in certi momenti della vita, per il destino. Ma so benissimo che il grattacielo è là. Come il destino.