L’aiuto infermiera Teresa Romero è il primo caso di infezione da parte del virus Ebola che si è verificato in Europa. Ed è successo in Spagna. Non si parla d’altro per strada, nei bar e a cena in famiglia. Da una settimana la paura, la perplessità, la necessità di trovare una spiegazione, e soprattutto un colpevole, dominano l’ambiente. Ma come è potuto succedere? Come può un gesto banale, un evento così irrilevante come toccarsi il viso con il guanto che era stato in contatto con il missionario rimpatriato dalla Sierra Leone, provocare una simile tragedia?

Tanto è forte la perplessità, quanto ossessivo è il dibattito sull’adeguatezza dei protocolli sanitari adottati e sul loro corretto utilizzo, con comparazioni tra quelli usati in Spagna e le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità. Per ora sembra chiaro che Teresa ha commesso un errore nel togliersi la tuta protettiva. Era stata a contatto con il missionario nel momento di maggior virulenza della malattia. I controlli non erano ancora sviluppati per un virus che si conosceva poco e si sono susseguiti una serie di accidenti ed errori fatali.

Il microrganismo è però mutato, diventando il germe che solitamente fa più danni nella società spagnola: la polarizzazione politica e sociale. I sindacati incolpano il Governo. Il quale ha agito tardi e accusa l’opposizione e i sindacati di comportamento disdicevole. E la piaga dello scontro si espande.

Sull’origine dell’Ebola sappiamo ancora poco. Sembra che venga dai pipistrelli. Sappiamo sicuramente qualcosa di più della malattia antropologica che trasforma i protocolli in un’utopia che dovrebbe metterci in salvo dalla libertà e dal male. A noi uomini moderni manca la saggezza espressa dal giovane Achille poco prima della morte di Licaone: “Non vedi come anch’io sono bello e grande? […] Ma come su te, anche su me incombe la morte e la Moira potente; sarà un’aurora, una sera oppure un mezzogiorno, quando qualcuno mi toglierà la vita in battaglia”. È logico che abbiamo timore di fronte a quel momento: non siamo cose tra le cose, ma desiderio di infinito. La cosa drammatica è che abbiamo creduto che i sistemi perfetti possano salvarci dalle frecce e dalle lance, dalla fatalità, dall’errore, dal male. Quando arrivano questi fulmini noi ci ribelliamo con violenza contro i medici, il Governo o gli dei che dovevano garantire la nostra sicurezza: tutti sono colpevoli e l’ideologia soffoca la domanda di dolore dei giusti (Camus).

A noi uomini moderni hanno insegnato che tutto può essere previsto, che il male non ha bisogno di redenzione. Gli antichi erano più realisti e cercavano qualche sacrificio capace di rompere la misteriosa ingiustizia che colpisce gli innocenti. Erano ingenui e anche superstiziosi. Ma nei loro sacrifici c’era una forma di attesa per il Sacrificio definitivo, quello che realmente ha vinto l’enigma lacerante.

Lo Stato moderno ci ha fatto credere che la libertà e il male potessero essere neutralizzati attraverso il monopolio della violenza e dei protocolli. Ci ha fatto credere che non ci sarebbero state più vittime. Ma in realtà è cresciuta la spirale della colpa: la vittima diventa carnefice (Girard) in una catena senza fine. Lo abbiamo visto anche in questi giorni, quando si è arrivati a indicare il missionario rimpatriato come il responsabile ultimo di quel che è successo.

Cosa può spezzare questa catena diabolica? Ascoltare la testimonianza di coloro che seguono il Giusto. “L’effetto peggiore dell’Ebola è che ci disumanizza e ci fa fuggire da chi abbiamo di fianco”, ha detto in questi giorni José Luis Garayoa, un missionario diventato famoso per il suo lavoro in Sierra Leone. Garayoa, dopo 30 anni trascorsi in Africa, accoglie i malati di diversi villaggi con una passione per la gente che soffre che ci fa comprendere il valore di una vita impegnata.

Non siamo al sicuro dalle conseguenze della libertà. La realtà va oltre i protocolli. A volte colpisce con dolore, altre volte mostra un volto che suscita meraviglia e stupore. Quando è più vera?