In un paese in cui c’è poca o nessuna democrazia scendere nelle strade a manifestare per la libertà è arduo e rischioso. Quindi i giovani che in questi giorni presidiano pacificamente il centro di Hong Kong meritano tutta la nostra stima. Oggi poi che dappertutto ci sono telecamere, e congegni fotografici in ogni telefonino, protestare in pubblico è rischioso non solo per il presente ma anche per il futuro. Perciò ogni protesta del genere va presa sul serio. Non è mai il frutto dell’entusiasmo di un momento, né tanto meno un gesto goliardico. E’ il segno di un disagio profondo e l’esito di scelte a lungo meditate. Una tale tensione può poi ulteriormente crescere sotto la spinta di forze estranee ad essa, nazionali o internazionali, politiche o economico-finanziarie. Non bastano tuttavia pressioni del genere a spingere la gente in piazza a manifestare sfidando perciò la polizia di un regime autoritario. Ciò vale oggi per Hong Kong come valeva ieri per l’Ucraina, la Tunisia, la Libia, l’Egitto, la Siria.
Tutto ciò fermo restando occorre poi valutare quanto peso e quindi quali prospettive la protesta può realisticamente avere in ogni singola situazione; e che cosa si può fare per aiutare questa gente in lotta per la libertà a procedere nel suo cammino, e non a precipitare nel baratro. A tale riguardo l’Occidente, in quanto finora dominus incontrastato della ribalta mediatica planetaria, ha delle grandi responsabilità. In regimi di consolidato autoritarismo, di fatto largamente accettato dalle masse, l’urgenza di libertà e di democrazia comincia a diventare irrefrenabile solo in minoranze che restano tali anche quando riempiono gli schermi televisivi. Riprese dai grattacieli circostanti, o magari dall’elicottero, le grandi piazze gremite di gente lasciano senza parole. E’ recente il ricordo del Maidan di Kiev illuminato nella notte dal lume di migliaia e migliaia di telefonini, o la folla di piazza Tahrir al Cairo. Adesso è la volta delle superstrade urbane di Hong Kong dove un’ordinata marea di giovani manifestanti ha preso il posto della consueta ordinata marea di auto. Più che mai nel caso di Hong Kong è pure notevole lo stile della protesta, che si ispira ai principi originariamente gandhiani della resistenza civile non-violenta cui si aggiunge una modernissima preoccupazione per l’ambiente. L’ammirazione, che tutto ciò giustamente suscita, non deve però farci dimenticare un dato di fatto: secondo le stime più fondate si tratta un po’ più di 130 mila persone in una città che ha circa 7 milioni di abitanti. Pur volendo immaginare che questi giovani dimostranti siano la proverbiale punta dell’iceberg, anche l’iceberg è ben lungi dall’essere la maggioranza della popolazione della città, per non dire poi dell’intera Cina.
Se davvero si vuole aiutare la causa così nobile ma anche così difficile di questi giovani cinesi in cerca di libertà, l’ultima cosa da fare (come invece irresponsabilmente si è fatto in tutti simili casi precedenti) è quella di spingerli con la forza della sovraesposizione radiotelevisiva planetaria a chiedere di più di quanto oggi realisticamente possono ottenere trasformando così in una catastrofe quella che invece deve essere prima tappa di un lungo cammino. Non è certo una nuova strage di piazza Tien an Men ciò di cui oggi la Cina ha bisogno.