Venerdì scorso, 17 ottobre, padre Romano Scalfi ha ricevuto il prestigioso Premio internazionale medaglia d’oro al merito della cultura cattolica, che da 23 anni viene attribuito dalla Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa a illustri personalità; tra i premiati delle scorse edizioni figurano – per fare solo alcuni nomi – l’allora cardinal Ratzinger e don Giussani, Augusto del Noce e don Divo Barsotti, il regista Zanussi e il maestro Muti.
Padre Romano Scalfi ha ricevuto il prestigioso Premio internazionale medaglia d’oro al merito della cultura cattolica in ambito culturale? Non si deve pensare – come a volte ci viene da fare di fronte alla parola «cultura» – che tale merito consista in una vita trascorsa a leggere libri o a scriverne, a formulare alati pensieri standosene un po’ isolati in una torre d’avorio. La vita di padre Scalfi non è stata affatto così. Nato dal solido ceppo della fede cattolica del Trentino – qualche giorno prima di ricevere il premio ha compiuto 91 anni – e riconosciuto di avere la vocazione a farsi prete, il giovane seminarista Scalfi sembrava avviato ad un normale impegno pastorale in diocesi. Ma poi succede il fatto imprevedibile, quello che decide il corso di tutta una vita: in seminario viene a celebrare una Divina liturgia in rito orientale e a parlare delle sofferenze dei cristiani in Russia (siano nel 1946) un sacerdote del Collegio Russicum di Roma. Per Scalfi è il colpo di fulmine: è sicuro che dovrà dedicare la propria vita di sacerdote alla causa della «Russia cristiana». Prima va Roma per lo studio della lingua e della cultura russa (e anche sovietica: bisogna conoscere bene il nemico per affrontarlo adeguatamente) e poi si trasferisce a Milano per coagulare attorno a sé un gruppo di sacerdoti e di laici che condividessero i suoi scopi e iniziassero un movimento di sensibilizzazione nei confronti del grande e troppo sconosciuto passato del cristianesimo russo e dell’altrettanto misconosciuto (quando non ideologicamente negato) presente di persecuzione e di eroica testimonianza. Nasce una rivista, si insegnano i canti russi, si celebra la divina liturgia, si cerca di fare qualche avventuroso viaggio oltre cortina.
L’interesse di Scalfi – ecco qui la novità del suo modo di «fare cultura» – non è prevalentemente rivolto al dibattito delle idee (neppure in campo ecumenico; anzi, a riguardo, lo infastidiscono i dialoghi un po’ formali che prendono il via nel clima post conciliare). A lui interessa incontrare l’esperienza degli uomini che vivono, soffrono e testimoniano anche sotto il tallone sovietico. Per questo Scalfi è uno dei primi che in Italia intercetta e valorizza l’incredibile fenomeno del dissenso; per anni quasi solo la sua rivista pubblica i documenti dell’editoria clandestina (beccandosi l’accusa di essere al soldo della Cia) e invita i dissidenti espulsi per giri di conferenze.
Sempre per questo motivo l’opera di padre Scalfi – Russia Cristiana appunto – non verrà messa in crisi dalla caduta del comunismo; non si trattava, infatti, di combattere un nemico in termini ideologici, ma di permettere un incontro di esperienze. E se l’esperienza dell’altro cambia perché la storia fa una svolta imprevista – la caduta del muro – intatto resta il desiderio di conoscerlo e incontrarlo.
Padre Scalfi è stato di certo contento di aver ricevuto il premio. Ma sicuramente non per se stesso – rimane un trentino schivo -, ma per la sua opera e, soprattutto, per questo umanissimo e assolutamente non intellettualistico metodo di «fare cultura».