Essere accettati nel posto dove si va a lavorare ed a vivere, è il sogno di ogni famiglia costretta ad emigrare. È un dato di fatto, una di quelle evidenze originarie che chiunque è emigrato in un paese straniero ha provato. Conviene soffermarsi su questa verità per pensare e per riflettere sulla proposta del premier Renzi di concedere la cittadinanza ai giovani immigrati che abbiano frequentato, regolarmente e con profitto, un intero corso di studi. Stiamo innanzitutto parlando di figli, cioè di soggetti inseriti in una famiglia, i cui genitori sono emigrati in Italia e lavorano regolarmente. Si tratta quindi di persone inserite in un progetto, analogo a quello reperibile in tutte le altre famiglie italiane. Stiamo anche parlando di scolari o studenti — secondo l’età nella quale sono venuti in Italia — cioè di persone che attraversano ogni mattina i portoni della scuola italiana e vivono già da ora dentro le nostre istituzioni scolastiche. 

Affinché si vada avanti, verso un superamento dello ius sanguinis in favore dello ius soli, non occorre nessuna battaglia culturale, né il problema va affrontato sul piano dei principi primi. In un paese problematico come l’Italia, occorrono invece due trasformazioni sostanziali, senza le quali non solo l’intero progetto si rivela velleitario, ma rischia di suscitare tensioni e problemi ancora più vasti di quelli attuali, ascrivibili all’emarginazione, alla miseria ed alla clandestinità.

Il primo di questi problemi da affrontare e risolvere riguarda la scuola stessa. L’iniziativa di far transitare lo ius soli non in virtù della semplice residenza ma di una responsabilità formativa consapevolmente assunta, chiama la scuola stessa ad assumersi precise responsabilità. L’iniziativa del ministro Giannini di predisporre cattedre ad hoc per integrare queste nuove funzioni può essere riconosciuta in tutta la sua qualità a condizione che gli istituti che vi si impegnano possano contare su alti standard di qualità. Occorrono insegnanti e dirigenti che, oltre ad essere preparati, debbono essere profondamente motivati: si tratta infatti di saper recuperare e saper presentare l’identità non solo linguistica ma anche culturale del nostro Paese. 

Non è facile. Non mancano distorsioni e contraddizioni strutturali e culturali tali da far apparire un simile obiettivo lontano e distante. I problemi dell’insegnamento sono più che noti. Tuttavia, quale possa essere l’entità delle criticità che di volta in volta affiorino, è comunque evidente come una riduzione della scuola a semplice istituzione certificatoria, inefficace e non autenticamente motivata, costituirebbe non solo l’ennesima occasione sprecata (tanto per i giovani immigrati, quanto per l’istituzione scolastica) ma soprattutto renderebbe completamente inesistente il progetto di integrazione. 

In pratica ci si affida alla scuola per integrare i giovani immigrati sul piano culturale, si ritiene che questa sappia e possa farlo. Chiunque si ritrovi a sottoscrivere una simile proposta deve essere cosciente della scommessa che la scuola si assume e della quale gli stessi insegnanti finiranno con l’esserne i diretti responsabili. 

Il secondo di questi problemi è ovviamente più vasto e riguarda l’insieme delle politiche immigratorie fino ad oggi attuate. Ogni passo in questa direzione non può, né deve significare l’estensione di un pericoloso gioco a somma zero, dove l’inserimento degli uni indica l’esclusione degli altri (si pensi all’inserimento nelle graduatorie in base al reddito, dove rischia di ingenerarsi una guerra tra poveri). La politica non è solo indirizzata a realizzare convinzioni e principi, ma è anche diretta a calcolare le conseguenze delle proprie decisioni: è cioè sottoposta ad una vera e propria “etica della responsabilità” che non può eludere. 

Ogni passo in direzione dell’integrazione ne implica uno analogo in direzione delle altre fasce a rischio: in particolare dei giovani senza lavoro, soprattutto di quelli che la scuola l’hanno lasciata in quanto l’hanno percepita come un mesto parcheggio, ma anche dei giovani italiani che emigrano per fare i camerieri a York e le commesse a Stoccarda. Sono problemi separati, ma che in realtà convivono nelle stesse strade e negli stessi quartieri. L’immigrazione non è un problema a sé, ma convive accanto agli altri, si sovrappone al resto delle criticità irrisolte. Una simile interdipendenza non va assolutamente dimenticata, le conseguenze potrebbero essere critiche.