I giorni, le settimane e i mesi passano e ancora i miei pensieri, le mie preghiere e il mio sonno sono interrotti, o alimentati, dalla memoria di quelle comunità, in particolare di cristiani, negli altopiani del nord dell’Iraq e nelle aree dei rifugiati della Giordania che hanno perso la casa, le terre e la vita, nonché, abbastanza spesso, i loro cari e i loro amici a causa della mano di un’ideologia religiosa violenta e di un’orda fanatica e senza pietà.
Quando mi ricordo di loro e mi soffermo su quello che stanno vivendo, la mia vita comoda e sicura mi appare irritante e a tratti odiosa. Mi sembra che più che vivere io mi stia nascondendo, nascondendo dal male e dal dolore che hanno sopraffatto i miei fratelli cristiani. Come posso rispondere? Cosa dovremmo fare? Di cosa hanno bisogno questi nostri fratelli e sorelle cristiani? Di cosa abbiamo bisogno noi?
Comincio a vedere una risposta quando ripenso ad un fatto accaduto negli anni passati nella Cisgiordania sotto l’Autorità palestinese. Di cosa hai bisogno? Qual è la cosa più importante? Fu un gruppo di americani a fare questa domanda a me e ai membri del consiglio pastorale della mia parrocchia. Allora ero viceparroco nella Parrocchia di San Giustino Martire a Nablus in Palestina, e un gruppo di parrocchiani americani voleva aiutarci. Incontrammo gli americani non a Nablus ma a Betlemme, perché a quel tempo Nablus era da parecchi anni una “città chiusa”, cioè l’esercito israeliano aveva eretto blocchi stradali molto grandi per controllare chi entrava e usciva dalla città e non permettevano ai veicoli privati di entrare o uscire. Si doveva passare a piedi. Questa situazione spaventava gli americani e così eravamo andati noi ad incontrarli a Betlemme.
Quando quella domanda la fecero a noi, “Qual è il vostro bisogno più grande?” mi vennero in mente molte cose. La comunità cristiana fino a pochi anni prima contava 5mila membri. Ora la popolazione cristiana ammontava ufficialmente a 700, ma in realtà meno di 600. I cattolici erano circa 350. Per la maggior parte erano molto poveri e si sentivano abbandonati e scoraggiati. Parlai con il mio gruppo e dissi agli americani: “la nostra parrocchia è povera e le servono molte cose. Le persone hanno molti bisogni urgenti. Ma il bisogno più importante di questa comunità è di sapere che non sono dimenticati o lasciati soli. Quindi la mia risposta alla vostra domanda è: “Voi. Abbiamo bisogno di voi”. Per favore veniteci a trovare. Tutto il resto verrà da questo. Ma la prima cosa è che voi siate con noi”.
Ricordarmi questo fatto mi aiuta a capire cosa io bisogna che faccia per la comunità cristiana nel Levante. Bisogna che io sia con loro. Ma come essere con loro? La risposta sembra chiara. Il dramma che stanno vivendo viene dal fatto che hanno perso tutto e non hanno nessuna speranza su questa terra eccetto che nella grazia di Dio, la salvezza di Gesù Cristo, e la promessa della vita eterna. Questa è la loro sola prospettiva. Questo e questo soltanto è quanto sta fra loro e l’abisso della disperazione e della rabbia impotente. La loro fede è letteralmente una questione di vita o di morte. Anche se per il momento non posso essere con loro in senso fisico, posso entrare nel loro dramma ed essere totalmente con loro, condividendo le loro grida e la loro speranza. E’ questa singolo dramma che ci unisce per sempre. Qualsiasi altra cosa che occorra sia fatta, verrà da questa.
In questo senso noi non dobbiamo nasconderci da questa ondata di male. Essa non è al di fuori della grazie e provvidenza di Dio, nostro Padre. Il loro dramma ci può aiutare a volgerci a vivere il nostro dramma e così essere uniti a loro. Possiamo essere sempre più grati per loro e la loro storia, simultaneamente essendo sempre più grati per la nostra storia, nonostante la minaccia del male. La catastrofe che ha sopraffatto i nostri fratelli e sorelle può aiutarci a capire il racconto di amore che ci rende possibile condividere quanto ci dice San Paolo: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno” (Romani 8:28).
(Traduzione di Silvia Ballabio)