Due sentenze, due decisioni che aprono la strada ai matrimoni gay negli Stati Uniti. Nei giorni scorsi, la Corte Suprema si è pronunciata due volte. Nel primo caso ha annullato il Defense of Marriage Act del 1996, che definisce il matrimonio come l’unione tra uomo e donna. Nel secondo ha dato il nulla osta alla California per i matrimoni tra omosessuali. In realtà, per quest’ultimo caso, la Corte non è entrata nel merito della legge, ma ha dichiarato di non essere competente in materia.
Avanzano quindi i cosiddetti nuovi diritti, nati negli Usa nel 1965. Allora, infatti, la stessa Corte Suprema parlò di diritto alla privacy, all’autonomia personale, per consentire a una coppia di utilizzare anticoncezionali. Da circa 50 anni la rivoluzione giuridica che tanta attrattiva genera in molti e altrettanta repulsione in altri cerca di realizzare una delle grandi aspirazioni dell’Illuminismo: la possibilità di una completa autodeterminazione. Le esigenze umane che tutti abbiamo, i desideri affettivi, di paternità, di maternità e di una vita senza dolore si canalizzano attraverso l’ordinamento giuridico.
Se non si percorre il cammino che va dal bisogno – che è sempre infinito – al diritto, non si può capire bene ciò che è stato scatenato da quello che avvenne cinque decenni fa. Soprattutto non si può comprendere una persona che con energia segue quella che le appare una via per la propria liberazione. E la cosa più importante è capire l’impulso umano che sta sotto questo movimento.
Tutti i diritti derivati dalla privacy attraggono perché pretendono di garantire l’emancipazione di fronte agli impedimenti legali e sociali. La libertà appare esaltata. Chi non desidera liberarsi, mettersi al riparo da qualsiasi tipo di coercizione pubblica o privata? Chi non aspira a essere padrone del proprio destino? Però comprendere l’umanissimo desiderio che batte nei nuovi diritti non significa accettarli acriticamente.
È evidente che il sogno dell’autodeterminazione espresso in certi termini conduce a un egocentrismo distruttivo. Ed è anche facile accorgersi che in questo caso si compie perfettamente il vecchio aforisma romano summus ius, summa iniuria: quando si vuole ottenere la massima giustizia si ottiene la massima ingiustizia. L’ordinamento giuridico non può garantire il nostro desiderio di essere completamente liberi o felici senza togliere qualcosa. Non siamo di fronte a un gioco a somma zero: quel che viene dato a uno si toglie all’altro.
Il momento che viviamo è simile a quello che diede origine alla Rivoluzione francese. I suoi promotori affermavano con entusiasmo: “Dite si faccia luce e luce si farà”. I suoi detrattori rispondevano: “Dicevano ‘si faccia luce” e si fece il terrore”. I rivoluzionari volevano portare l’uomo fuori dalla sua condizione svantaggiata, ma ciò che costituisce l’umanità degli uomini non è l’autosufficienza, la capacità di astrarsi da tutta la tradizione, ma l’appartenenza, il far parte di una determinata comunità. L’uomo, detto in altri termini, non è padrone del suo significato. Che viene da una fonte che lo precede e trascende (Finkielkraut leggendo Burke).
Il problema è che questa evidenza – l’uomo è un essere preceduto – non può imporsi. Questa è la sfida affascinante per la nostra cultura e per il diritto: riconquistarla dal di dentro. E per questo non serve il vecchio linguaggio sull’oggettività di certi valori non identificabili con il diritto positivo. Bisogna percorrere tutto il lungo cammino che va dall’assolutizzazione della privacy al riconoscimento del fatto che siamo esseri di un altro. Ci sono degli utili indizi. Per esempio, quello della sentenza sul caso Glucksberg (1997) della stessa Corte Suprema degli Stati Uniti. I ricorrenti volevano il diritto all’eutanasia, i giudici lo hanno negato argomentando che il diritto di autodeterminazione del paziente non può essere considerato come un assoluto astratto, ma deve essere considerato in funzione delle circostanze e delle relazioni in cui la persona è immersa. Camminiamo…