In questi giorni seguo, con viva attenzione, quanto sta accadendo a Hong Kong. Mi riferisco alla protesta promossa da giovani e professori; una contestazione che sta sensibilizzando tutto il popolo su una battaglia nata per rivendicare una maggior democrazia nelle elezioni del governo locale. 

Nella normale distrazione e lontananza che rischiamo di vivere noi europei, sono rimasto commosso da questo grido che, inevitabilmente, prima o poi, sarebbe esploso in Cina. Sono, infatti, dell’idea che nessun sistema (neanche l’attuale più grande potenza al mondo) possa sopprimere il desiderio di libertà, di giustizia, di verità, di amore insito nel cuore dell’uomo. 

Questa provocazione è un grande richiamo affinché si ridesti il nostro cuore a quelle esigenze ed evidenze troppo spesso sepolte nelle nostre preoccupazioni quotidiane e nelle nostre meschinità borghesi. 

Peraltro colpisce come questo dissenso, che brucia sotto la cenere della grande Cina, sia maturato proprio nel suo centro più “occidentale”, nel quale si trova il massimo della sintesi del capitalismo e del comunismo. 

Inoltre, mi ha impressionato la testimonianza di un giovane, che si è trovato a vivere dei rapporti umani a fianco di persone appartenenti a categorie sociali diverse dalle sue. Ciò accade in una metropoli come Hong Kong, in cui l’indifferenza e il principio dell’affermazione economica e del successo costituiscono la “legge” delle relazioni sociali e delle aspirazioni dell’uomo. Come non sentire il sussulto dei miei anni giovanili nel periodo delle manifestazioni degli anni 70, in cui il grido di libertà giustizia e verità esplodeva nelle manifestazioni settimanali che facevamo in piazza e che coinvolgevano giovani, studenti e universitari? 

Vi è però oggi, in tutto questo, il rischio che il loro grido, sulle note di “Do you hear the people sing?”, non trovi un’adeguata risposta. 

Nella mia vita, l’incontro con l’avvenimento cristiano, a 17 anni, ha coinciso con la presa di consapevolezza che la battaglia per la libertà, la giustizia e l’amore a cui anelava il mio cuore avesse un primo punto di contraddizione, il mio limite, il mio peccato. Come si chiede Claudio Chieffo nella sua canzone “La Guerra”, “a questo mondo non ci sarà dunque giustizia?”. 

Tutta la generazione del ’68 e quella successiva ha vissuto nell’illusione che l’utopia potesse rispondere ai propri desideri, per poi vederli ridotti o nella disperazione di alcuni (come la testimonianza del suicidio del giovane compagno del ’77, che recitava “non si lasci più aperto un varco così grande che un uomo possa perdersi”) oppure in quella riduzione del desiderio che si esprime — poi — nel cinismo della carriera e nell’affermazione di sé. 

Solo l’adesione a qualcosa di più grande poteva essere in grado di accogliere il mio limite e di dare risposta piena alle mie domande. Per cui, l’amicizia con Cristo non l’ho sentita, nella mia storia, come uno strappo, ma come una risposta compiuta a un desiderio. In questo senso si può dire che il compimento del grido del ’68 è stato, per me e per tanti altri, l’incontro con la Chiesa. 

Questa grande testimonianza che giunge da Hong Kong ribadisce come il compimento del cuore dell’uomo non sia un progetto politico ma la ricerca della verità. Anche la solidarietà di cui si sta facendo esperienza nella battaglia può trovare una sua continuità e profondità solo nella comunione dell’avvenimento cristiano. Solo in Cristo, infatti, si compie veramente quel desiderio che anela nel cuore di questi giovani e dei loro professori. Un’aspirazione che neanche un grande regime può soffocare. 

Solo vivendo l’avvenimento cristiano cambiano, d’altra parte, le relazioni umane e sociali e, dal profondo della società, si genera una speranza per tutti. Così come ci insegna la storia del cristianesimo, che ha cambiato il principio delle relazioni umane dell’Impero romano — il rapporto tra liberi e schiavi — in un legame più profondo nella comunione tra fratelli. 

È proprio vero che “le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo”.