La vita di una ragazzina di dodici anni, sofferente di idrocefalo, affetta da meningite e setticemia, non può che suscitare dolore da parte di ciascuno di noi. Affetto umano quindi, denso e profondo, per la madre che ha deciso di “staccare la spina”. È questa la logica che ha indotto l’Alta Corte del Regno Unito a non processare Charlotte Fitzmaurice, riconoscendola non colpevole.

Il caso è di quelli che fanno tremare il cuore e obbliga a formulare la domanda tremenda e debole al tempo stesso: tremenda perché concerne la vita e la morte, debole perché riguarda la piccola Nancy, perché è lei e proprio lei, la prima a soffrire. Cosa provava Nancy? Se non provava veramente nulla, se era come un “guscio vuoto”, come asserisce colei che certamente l’ha amata per dodici anni, allora non ci si può non interrogare sui limiti di un accanimento terapeutico che oggi ha raggiunto vette tali da poter mantenere in vita chiunque (non a caso il sistema sanitario del Regno Unito è stato giudicato di recente il migliore del mondo) anche chi è già morto da tempo. Ma se Nancy provava qualcosa, se sentiva la presenza, allora il dolore in chi legge è, se possibile, ancora più forte, ed è bene restare in silenzio dinanzi ad un tale dramma, perché è una tragedia e le tragedie sono in sé orribili.

Suscita invece un mesto e forte dissenso la pretesa di regolamentare la “dolce morte” anche per coloro che “gusci vuoti” non sono affatto. Coloro che, diagnosticata una malattia letale, come l’americana ventinovenne Brittany Maynard, decide di togliersi la vita il prossimo primo novembre. Non senza avere informato il mondo via on line con un diario che sta commuovendo e spaccando l’America, o come un esponente della cultura italiana quale Lucio Magri che, qualche tempo fa, ha deciso di recarsi in Svizzera dopo la morte della moglie, per beneficiare delle procedure sulla “morte volontaria assistita”. Tre casi radicalmente diversi, per nulla omogenei tra loro, ma che una legislazione sull’eutanasia finirebbe, prima o poi, per mettere insieme, ritenendo un “guscio vuoto”, non solo chi lo è ma anche chi ci si sente, indipendentemente dalle condizioni di salute e dall’età.

Di fatto l’utopia individualista arriva al capolinea. Padroni della nostra esistenza abbiamo il diritto di togliercela quando non la riteniamo più accettabile e di toglierla agli altri quando, con tutto il conforto delle nuove tecniche diagnostiche, è la loro ad apparirci insostenibile.

In realtà non siamo affatto padroni della nostra esistenza, ma dipendiamo dagli altri perché è nella relazione con loro che esistiamo, viviamo, arriviamo a produrre e ad edificare. La nostra vita non ci appartiene proprio perché siamo amati e il dolore che gli altri sentirebbero per la nostra perdita è senza misura. 

Dipendeva dagli altri la piccola Nancy, dipende dagli altri la giovane Brittany, dipendeva dagli altri Lucio Magri. Storie di dolore e di solitudine che ci chiamano tutti in causa. Chiunque si chiama fuori con la morte assistita è una perdita per l’umanità intera: nessuno è necessario, tutti siamo indispensabili.

Nancy, Brittany e Lucio sono tre storie diverse, separate tra loro da tutte le diversità possibili. Ma ciascuna di queste morti è una perdita per tutti noi, anche quando – nel caso dei due adulti – la loro decisione sembra essere suffragata da tutti i diritti del soggetto libero e cosciente. Ce li stiamo perdendo, ce li siamo persi.

Ma è anche vero che non potevamo farcela da soli. Non poteva farcela la madre di Nancy, Charlotte, non possono farcela i genitori di Brittany, né potevano farcela gli amici più cari di Lucio: coloro che gli hanno voluto bene per una vita intera.

Esiste una prossimità che non riusciamo da soli a colmare. Esistono forze che non riusciamo ad avere, una presenza che non riusciamo ad assicurare, desideri di amore che non riusciamo a realizzare. Solo una compagnia sostenuta da una presenza divina può realizzare quello che alle nostre sole forze risulta sovrumano. Solo un Dio può sostenerci, attraverso le braccia concrete di una comunità non retorica, ma silenziosamente presente ed operante. Per adesso, più che un’incosciente legge sul diritto al suicidio, ci sia di compagnia la mesta consapevolezza della nostra inefficacia umana ed il desiderio di incontrare quel Dio che ci abbraccia, affinché ci aiuti a trattenere tra noi chi vuole andarsene.