Se c’è un simbolo del modo d’essere degli italiani, è la casa. I motivi sono tantissimi, e vanno da un attaccamento al luogo dove si è nati o dove si vive, visto che i luoghi nel nostro paese non sono mai anonimi ma densi di storia e di bellezza; ma c’entra anche il gusto: perché nella casa si esprime una sensibilità sempre personale, un istinto per la qualità che nessun altro popolo possiede in modo così diffuso. E c’entra con il senso della famiglia, che, per quanto sia stato eroso, resta sempre forte e positivo. Questo spiega perché l’Italia abbia una percentuale record di proprietari di case: una percentuale che è cresciuta progressivamente negli ultimi 50 anni, sino a toccare il record del 70 per cento nel 2011. Poi la crescita non solo si è frenata, ma addirittura ha iniziato a calare, a favore di chi, non per scelta ma per necessità, paga l’affitto da inquilino.
I motivi sono facilmente comprensibili, vista la profondità e durata di questa crisi. Fatto sta che in questo 2014 gli italiani si sono ritrovati a dover combattere con il mal di casa.
C’è innanzitutto la guerra tra poveri per avere un tetto, con mezzi leciti e spesso illeciti. Guerra che infiamma le periferie e su cui s’innesta la violenza di gruppi antagonisti. Ci sono conflitti, per convivenze troppo promiscue, in quartieri che amministrazioni incapaci hanno trasformato in vere polveriere: ne hanno dato testimonianza Walter Izzo e Aldo Brandirali sul sussidiario nei giorni scorsi. Per stare ad una situazione come quella di Milano, oggi a fronte di 22mila famiglie in lista d’attesa per avere una casa ci sono 7500 alloggi popolari vuoti. «Siamo di fronte ad un indice che testimonia la cattiva amministrazione», ha detto al sito Vita.it un altro testimone che conosce la situazione “dal vivo”, Claudio Bossi, presidente di una cooperativa sociale milanese, la Cordata. «L’assenza politica è stata da una parte drogata dalle aspettative immobiliari e dall’altra mascherata dal benessere. Oggi con la crisi si è arrivati ad una fase di rottura».
Ma il mal di casa ha aggredito anche altri ceti che sembravano protetti da quel rischio. Nei giorni scorsi abbiamo letto la notizia di proprietari che, per disperazione, hanno reso inabitabili, demolendo i tetti, edifici nei loro paesini d’origine, pur di non doversi far carico dell’Imu. Infatti neanche la donazione al comune li avrebbe risparmiati dagli oneri fiscali connessi con il possesso dell’edificio. Spesso si tratta di vecchi borghi, vero patrimonio diffuso del nostro paese, che quindi rischiano di precipitare in rovina.
E non finisce qui. Nel 2014 gli oneri relativi al possesso degli immobili (non solo case, dunque) toccherà la stratosferica cifra di 31 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti anche i 4,1 miliardi della gabella più recente, la Tasi.
Dovremmo aggiungere anche la miopia di un mercato immobiliare che ha inflazionato l’offerta, contribuendo al calo dei valori e determinando il paradosso di migliaia di appartamenti vuoti nelle nostre città.
Una somma di situazioni che hanno quindi un unico comun denominatore: è stato minato uno dei simboli del nostro modello di vita. Pensare che questo atteggiamento punitivo ad oltranza nei confronti di un qualcosa che sta tanto a cuore agli italiani, non determini conseguenze a livello di comportamenti sociali e non sia destabilizzante a livello di psicologia collettiva è davvero una pia illusione. Al contrario investire secondo modelli ragionevoli sulla casa, sarebbe un segnale che aiuterebbe a ridare fiducia e a costruire coesione. La casa non è solo una faccenda di mattoni; è un valore sociale imprescindibile, da cui dipende la tenuta di tanti altri valori, a cominciare dalla tenuta delle famiglie. E da cui dipende la possibilità, decisiva per ogni società, di avere nuove famiglie.