Lev Tolstoj ha esercitato sulla cultura russa, europea ed internazionale del suo tempo una influenza enorme. Nel suo convegno di alcuni giorni fa la Fondazione Russia Cristiana ne ha studiato un aspetto centrale, quello religioso. L’autore di Guerra e pace ha addirittura fondato una sua propria «religione» – ammirata ed entusiasticamente abbracciata da molti -, che deve parecchio agli insegnamenti morali del Vangelo e che, però, rifiuta di riconoscere la divinità di Cristo e l’autorità della Chiesa. Certamente Tolstoj ha intercettato in modo profondo – traendone anche le dovute conseguenze operative – la radicale insoddisfazione del suo tempo per un illuminismo riduttivo, da un lato, e per una fede troppo attigua al formalismo magico dall’altro.
In una delle sue numerose «professioni di fede», scritta nel 1877, egli afferma di credere «in una chiesa una, santa e vera, che vive nei cuori di tutti gli uomini e su tutta la terra». Rispetto alla formula della professione di fede cattolica (e ortodossa, nella quale era cresciuto) Tolstoj si ferma a metà. La sua comunità di fedeli sarebbe certamente «una» e «santa» (il «vera» è un’aggiunta forse per mascherare ciò che viene troncato), ma non è né «cattolica» (o «sobornica», cioè comunionale, come dicono gli ortodossi), né «apostolica». Egli cioè rinuncia a ciò che fa del cristianesimo una esperienza indissolubilmente legata ad uno spazio e ad un tempo e, perciò, compiutamente umana.
Un suo fervente seguace (poi tornato nell’alveo della Chiesa ortodossa e morto martire), Michail Novosëlov gli scrisse: «Lev Nocìkolaevi, caro, indimenticabile amico nostro, perché, mi dica, perché si è fermato a metà strada del Suo maestoso incedere verso Cristo? Perché non porta a termine la grandiosa impresa che ha iniziato? Perché offusca il volto di Cristo così sfolgorante, fermandosi a metà strada?». La risposta – ovviamente – è molto complessa e dovrebbe considerare il temperamento personale, la pervicacia nel voler mantenere la propria idea, le influenze subite, l’ostilità a volte gretta della Chiesa del suo tempo, e molto altro. Qui, però, mi interessa evidenziare che in ogni cammino cristiano ed in tutta la sua durata è possibile «fermarsi a metà strada».
Esattamente perché il cristianesimo non si riduce all’adesione teorica ad una «professione di fede», ma è il nesso con un fenomeno umano caratterizzato da tempo e spazio, c’è sempre la triste possibilità di troncare questo rapporto o anche solo di accantonarlo. Magari conservando intatta una astratta adesione a principi teorici e morali che quel rapporto ha portato con sé.
Vale cioè per ogni giornata del nostro cammino di credenti quanto Benedetto XVI diceva del procedere della storia umana: «Non c’è possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio» (Spe salvi, n. 24).
Si resta a metà strada perché si decide di non ricominciare più. Chi non fa così è il bambino, in cui dominano l’inesauribile curiosità e la sicurezza di una concreta presenza da seguire.