Ucraina. Proprio mentre nella regione del Donbass si svolgevano le discusse elezioni che hanno visto la “netta” vittoria dei separatisti filorussi, nella città di Khar’kov – Ucraina nord orientale, a solo 38 km dal confine russo e a 100 km dalle zone tutt’ora in guerra – uno strano gruppo di persone si ritrovava a interrogarsi su cosa rende unito l’io, su cosa rende unita la vita intera e rende possibile vivere qualsiasi circostanza con gusto.
Definire la composizione di quel gruppo strana è dire molto poco: la gente arrivava a Khar’kov a scaglioni da Kiev, Odessa, Cernovcy, Lišnja, Dnepropetrovsk, Mosca, Saratov, Minsk, Vilnius, Milano, Brescia, Bologna e Pesaro; c’erano studenti, famiglie più e meno giovani, sacerdoti, professori universitari, editori, giornalisti, architetti, impiegati, artisti, c’erano perfino un vescovo, un seminarista e un poeta e c’erano anche dei bambini, di cui uno in fasce; c’erano ortodossi e cattolici di vecchia data e ragazzi ancora in cerca; si parlavano lingue diverse, occorreva tradurre tutto, di continuo, sempre.
Ad accoglierli i khar’koviani che per l’occasione hanno spalancato le porte delle loro certo non grandi e ancor meno ricche case e si sono fatti in quattro per sistemare tutti cercando di essere attenti a ognuno. Era il raduno di una comunità cristiana. Io sono arrivata a Khar’kov da Mosca in treno la mattina presto, ho lasciato la valigia dai miei ospiti e sono andata con loro in centro. La piazza centrale di Khar’kov è ormai più che famosa: una delle piazze più grandi d’Europa, fino a qualche settimana fa era dominata da un immenso monumento a Lenin che ora non esiste più. Se ne intravvede ora solo l’enorme piedistallo circondato da impalcature attraverso le quali spuntano anche un paio di gigantesche scarpe di pietra: è tutto ciò che di Lenin è rimasto, l’hanno segato alla base, è caduto e si è frantumato.
Dentro era vuoto. E ai piedi di quel simbolo imballato ora è stata collocata una grande croce di legno, un segno chiaro di memoria che nella sua essenzialità lancia una sfida al cuore di tutti. Ed è proprio lì – dove con i primi arrivati abbiamo accolto il vescovo che ci aveva raggiunti appositamente da Kiev per condividere quelle giornate con noi – che all’improvviso ho visto arrivare lo “scaglione kievliano” al gran completo: una ventina di persone. Sono comparsi su quella piazza come all’improvviso, stupendomi e quasi ferendomi con la gioia dei loro volti. Gli abbracci che ci siamo scambiati nel ritrovarci, i sorrisi, la certezza, la speranza… e la stessa scena si ripeterà qualche ora dopo quando si uniranno a noi anche gli italiani e tutto il resto del gruppo per iniziare a “lavorare”: chi siamo? Che storia ci ha portato fino a qua? Che cosa ci è accaduto? Che attesa abbiamo?
È il teologo ucraino Aleksandr Filonenko a guidare i momenti di incontro ma fin da subito lui stesso mette in chiaro le cose: «Guardiamoci in faccia gli uni gli altri, lo sappiamo bene tutti che nessun uomo avrebbe mai potuto riunirci tutti qui; se siamo qua è perché a metterci insieme è stato lo Spirito Santo e la prima cosa che dobbiamo avere a cuore è che siamo tutti protagonisti e testimoni di quello che ci è accaduto». Per la Chiesa cattolica è la vigilia della festa di tutti i Santi, entrambe le Chiese in quei giorni commemorano i defunti cioè coloro che – come ci ricorda un amico, proponendo un’etimologia che metterà in non poca difficoltà la traduttrice – hanno terminato di svolgere la loro funzione storica qui per continuare a vivere altrove. Ma gli amici che invadono Khar’kov sono decisamente vivi e di avere una funzione storica, un compito da svolgere nel mondo, ne sono ben coscienti.
Eppure di politica in quei giorni non si è parlato e questo, a ben vedere, fa un po’ impressione, perché il momento è caldo e le persone presenti – in particolare gli ucraini – non sono esattamente dei ragazzini: sono uomini adulti profondamente impegnati con la vita, non sono né ingenui, né infantili, né disinteressati, né gente che vive fuori dall’urgere del contesto storico. Ma quei giorni sono stati così pieni di altro che io stessa mi sono trovata a rendermene conto solo a posteriori: non ho parlato di politica quasi con nessuno. Della politica, o meglio dei giochi di potere, durante quei giorni ho sentito solo un’eco, come un lamento recondito e dolorosissimo scorto nel cuore dell’uno che ha amici al fronte, dell’altro che ha figli in età di leva, di un terzo che ha la nonna che vive a Doneck, di qualcuno che non riesce a guarire dall’ansia di leggere continuamente le notizie in internet…
Ma le persone lì riunite avevano fatto tanta strada e grossi sacrifici per esserci ed erano lì, in quel fazzoletto del mondo umano così martoriato dalla storia, letteralmente convocati a vivere una speranza fuori dal mondo: sembrava proprio di vedere accadere nel mondo una cosa dell’altro mondo. Nel senso letterale. Non eravamo che una settantina (forse anche più di un centinaio se si considera chi è apparso sporadicamente) ma si aveva l’impressione di aver abbracciato tutta la città. E il mondo.
Tra i protagonisti di questa avventura c’era anche un giovane editore che, accettando l’insolita proposta dell’appena nato Centro di Cultura Europea Dante, ha pubblicato il libro di Silvio Cattarina Torniamo a casa. Silvio, il fondatore della comunità terapeutica L’Imprevisto che accoglie ragazzi devianti e tossici, ci ha fatto il regalo di venire a Khar’kov con la moglie Miriam e due ragazzi, Enrico e Marigona, che il cammino della comunità l’han fatto tutto e che non hanno avuto nessun’esitazione a testimoniare la loro storia, le loro cadute e la loro rinascita. Avevano gli occhi pieni di una gioia provata dal dolore, raramente ho incontrato persone così capaci di star davanti alla vita e alla sua lancinante domanda di senso.
Amici, testimoni. Dopo che Marigona e Enrico parlano in pubblico si avvicinano vergognosamente a loro dei ragazzi che stanno affrontando gli stessi problemi: «Sono undici mesi che non prendo più le sostanze ma questo non basta, le sento ancora che mi chiamano. In voi si vede che vivete, che avete qualcos’altro per cui la vita vale. Come possiamo fare? Che strada dobbiamo fare?» Sono storie drammatiche e domande vertiginose ma la risposta è così limpida e semplice da lasciare di stucco: «Continuate la strada che state facendo e rimanete attaccati a chi vi ha chiamati qui».
Non basta smettere di drogarsi perché si riempia quel vuoto così tremendo che può portare anche a scelte così estreme, non basta che non ci sia la guerra perché ci sia la pace vera, perché sia pieno di pace il cuore. Non c’è vita senza senso, non si cammina se non si sa dove si sta andando. Non bastano i miracoli – che tra quegli amici ultimamente non sono mancati – a riempire di gusto il quotidiano. Vogliamo vivere, camminare, vogliamo fare una strada… È proprio la strada il tema che sempre riemergeva nei nostri dialoghi. E abbiamo scoperto che c’è una strada bella e che possiamo percorrerla insieme. Per questo, tutti, ci siamo messi in moto, in cammino, per vivere insieme quella strada che Papa Giovanni II, guardandoci camminare, riconobbe essere LA strada: Cristo.