Che dieci milioni di persone restino incollate davanti al video per un’interminabile cavalcata sui 10 comandamenti è uno di quei fatti che, se si è onesti, vanno catalogati nella categoria dell'”imprevisto”. È vero che sul palco c’era Roberto Benigni, è vero che Benigni aveva raggiunto audience anche maggiori, seppur di poco, con analoghe performance dedicate all’Inno di Mameli e alla Costituzione. Ma c’era anche il precedente del flop dell’ultimo Dante. Per di più sul palcoscenico c’era solo quella pagina della Bibbia aperta su un leggio, senza nulla che desse la parvenza e l’appeal di uno spettacolo. 

C’era il saltimbanco Benigni, che però ha smesso presto di giocare con le battute sull’attualità politica romana che tutti i giornali hanno riportato, e invece si è tuffato a corpo morto, senza distrazioni o divagazioni nel tema davvero tosto che si era autoassegnato. A questo punto è iniziata una corsa stupenda nella quale Benigni ha inanellato una serie di affondi e di narrazioni che effettivamente con il solo ausilio della parola tenevano inchiodati allo schermo. Basti, a mo’ di esempio per chi non avesse seguito la prima serata (che purtroppo non è disponibile on demand, perché il buon Benigni sta pensando a un prodotto da commercializzare), la narrazione della figura di Mosè. Fatta in un crescendo che restituiva appieno la grandezza del personaggio, che comunicava tutta la sua umanità potente e appassionata, sino a quell’apice che è stata la narrazione della sua morte, che Benigni ha tratto da una pagina meravigliosa del Midrash. Una pagina in cui si racconta come salito sul monte e rimasto solo in quel momento estremo, vide Dio chinarsi su di lui e «raccogliere la sua anima in un bacio».

Benigni è stato anche molto didattico. Non ha dato per scontato nulla, sapendo di doversi confrontare innanzitutto con tanti pregiudizi rispetto all’idea che qualcuno possa dare a noi uomini moderni e affrancati dei “comandamenti”; ma poi anche con l’ignoranza diffusa rispetto ai fondamentali, in materia religiosa ma non solo. Ma è stato bravo a non fare sconti, a non prendere in considerazione le possibili obiezioni, a partire da quella sull’esistenza di Dio (“Partiamo da un presupposto che non ho nessuna intenzione di mettere in discussione”, ha detto iniziando: “Dio c’è”).

La forza di Benigni, a parte la passione, è stata nella determinazione con cui ha perseguito un’ipotesi molto chiara. Lo si è capito nel momento in cui ha attaccato l’analisi dei singoli comandamenti, in cui ha sempre ribaltato la comoda vulgata corrente che li identifica in altrettante proibizioni. Al contrario i comandamenti riletti da Benigni sono diventati delle grandi prospettive di liberazione: il non nominare Dio invano, è in realtà un’ammissione che a Dio piace essere nominato, proprio come si nomina una cosa grande che si ama. 

Il non farne immagine, è un invito a non fissarsi sulla pretesa di volerlo “possedere” e allargare piuttosto il pensiero a ciò che il pensiero non può contenere (“prima dei comandamenti il nostro cervello era un monolocale, ora Dio lo ha trasformato in una casa dalle cento stanze”, ha detto Benigni).

Certo, ci sono anche limiti in uno spettacolo così. Ogni tanto qualche punta di sentimentalismo di troppo. Un innamoramento del proprio dire a cui non riesce mettere argine al momento giusto. Un ragionamento affascinante e stupendo, ma che a volte espunge il dramma della storia. Detto questo, onore a Benigni, perché ha proposto uno sguardo religioso sulla vita come lo sguardo più appassionante possibile. E perché, come ha detto due giorni fa Papa Francesco, ha dimostrato cosa succede quando si ha il coraggio di «risvegliare le parole».