Con le riforme non si mangia

La strada delle riforme è costellata da ostacoli e da interrogativi. Se la differenza non la fa la qualità, ci pensa la demagogia. L'editoriale di LORENZA VIOLINI

Congedato dal Senato prima della pausa estiva, il disegno di legge costituzionale n. 2613 recentemente approdato in aula dopo l’esame compiuto dalla relativa Commissione Affari costituzionali sta per affrontare la seconda tappa di un tour che ne prevede almeno 4 in sede parlamentare e una quinta, solo eventuale,  nel caso in cui venga richiesto il referendum confermativo delle scelte operate in sede parlamentare. Si è dunque ancora lontani dalla metà del percorso benché, in verità, se le cose andassero secondo i tempi previsti dal governo, si potrebbe immaginare un’accelerazione anche importante nel momento in cui sia Camera che Senato dovranno procedere alla seconda votazione “a distanza non meno di 3 mesi”, come prevede l’art. 138 della nostra Costituzione. 

La strada delle riforme di diversi aspetti della Carta costituzionale è però costellata da ostacoli e da interrogativi: il più noto e politicamente rilevante è certamente l’intersecarsi della riforma stessa con l’emanazione della nuova legislazione elettorale, parzialmente decaduta ad opera della Corte costituzionale con la sentenza n. 1/2014 e non ancora modificata. Il che può creare non pochi problemi nel momento in cui ci si appresta a modificare la struttura delle due Camere, di cui una sola sarà eletta direttamente mentre la seconda, cioè il nuovo Senato, sarà eletta dai consiglieri regionali. E, sempre mentre si discute di riforme, all’orizzonte si profila l’elezione del presidente della Repubblica, altra fonte di incognite sul piano politico vista la fine dell’ultima elezione che ha portato nuovamente in carica Giorgio Napolitano. 

Si capisce pertanto che, ultimamente, la questione costituzionale si innerva profondamente nel sistema politico e ne interseca le vicende; non a caso — ad esempio — si è giunti alla determinazione di far eleggere il Senato dai consigli regionali e non dalle giunte, come si era anche prefigurato. Conferire l’elettorato attivo ai primi e non alle seconde ha infatti il significato di lasciare qualche spazio, in seno alla ridottissima seconda Camera, alle opposizioni, che invece sarebbero fortemente compresse se si fosse preferito puntare sugli esecutivi, tendenzialmente monocolori e attualmente quasi tutti dominati dai partiti di sinistra. 

Ora, venendo ai contenuti del ddl, può essere interessante rilevare come dalla Commissione Affari costituzionali della Camera non siano emerse novità significative. Qualche correttivo è stato apportato alle norme sull’elezione del presidente della Repubblica per accentuarne la natura di “rappresentante della nazione”, mentre scompare la possibilità per il capo dello stato di procedere al rinvio delle leggi alla Camera solo in modo parziale. Ancora, si è intervenuti sulla procedura di voto a data certa, modificando i termini; non si parla di Regioni a statuto speciale o del destino delle Conferenze; si è eliminata la norma che riservava alla procedura bicamerale le leggi relative alla famiglia e alla salute (leggasi matrimonio omosessuale e legge sul fine vita, che evidentemente si considerano di là da venire).

Ma non molto di più. Il che si capisce perfettamente: non è questo il momento delle sottigliezze, delle precisazioni. Mentre il mondo dei costituzionalisti si è speso in una molteplicità di consigli e di critiche, anche molto assennate, la politica ha fretta: deve dimostrare al Paese e all’Europa di essere in grado di fare le riforme, qualunque sia il loro contenuto; al più, il contenuto è finalizzato a rafforzare il consenso, come dimostra l’accattivante titolo del disegno di legge, che fa riferimento al superamento del bicameralismo paritario, alla riduzione dei costi della politica (il che è solo in parte vero, visto che i senatori saranno pagati da Regioni e Comuni e non più dallo Stato centrale, almeno formalmente, mentre in realtà a pagare saranno sempre e solo — come al solito —, i cittadini, già snervati dall’ondata di tasse di dicembre) e all’abolizione del Cnel, cosa che effettivamente il disegno di legge compie. Con un titolo così, chi mai ad un referendum voterà contro? 

Ancora un volta, un pizzico di populismo aiuterà a raggiungere gli scopi, certamente nobili, di cui il Paese ha bisogno, mentre spera — ostinatamente e contro ogni dato economico — in tempi migliori. 

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