Che conforto c’è nell’apparire di un Dio salvatore che non viene nella potenza e nella gloria, ma nella povertà e nella necessità, tanto da sembrare di aver più bisogno di noi di quanto noi non abbiamo di lui? Chi soffre cerca una mano potente in grado di proteggerlo nel pericolo e di porre giustizia nell’ordine della vita. Sentirsi minacciati dal male o schiacciati dalla violenza ci fa domandare un’apparizione di gloria, davanti alla quale ogni pretesa umana deve cedere, soprattutto quella di coloro che detengono il potere. Non una scena tenera di personaggi inermi. Quante volte ho ripensato a queste cose mentre celebravo le feste natalizie coi miei fratelli cristiani in Palestina. 

Ma in un momento di storia in cui il popolo di Dio, gli ebrei, il popolo dell’alleanza, soffriva sotto il giogo di un potere che non riconosceva la legge di Dio ma sottometteva a sé ogni cosa e ogni persona, che senso avrà avuto mandare un salvatore povero che non comandava un esercito capace di liberare la terra promessa?

Ci sono voluti molti anni per capire, ma c’è stato un avvenimento nella mia vita che, pian piano, mi ha rivelato una risposta a questa domanda difficile. Si tratta di quando ho comunicato alla mia famiglia — genitori, fratelli e cognati — che sarei entrato in seminario per farmi prete. 

Impegnandomi nella vita cristiana, nella chiesa cattolica avevo capito che non sarebbe stata una cosa troppo gradita dalla maggioranza della mia famiglia. Già c’erano stati tanti momenti di tensione, obiezione, disprezzo e ironia verso la direzione cui tendevo spiritualmente e filosoficamente. Certo, il mio modo di presentarmi poteva lasciare molto da desiderare. Però, alla luce di tutte le scelte varie e radicali dei miei fratelli, non meno che di mia madre, immaginavo che la svolta della mia vita sarebbe stata vista come una fra tante nella famiglia; una scelta che poteva fare stae male, ma comunque non motivo di “scomunica”. Sbagliavo. L’aggressività espressa da alcuni, gli insulti e le accuse di altri, con, al meglio, uno sguardo che dimostrava pena per il mio stato irragionevole e non accettabile mi colse per sorpresa. Una netta presa di distanza di quasi tutti. Ci ho messo quasi vent’anni prima di tornare a conversare con tutti. 

Perché?, mi domandavo. Una sorella strega buddhista, una sorella mormone, un fratello sposato in una famiglia massonica, uno completamente identificato col mondo heavy-metal, altri con altre scelte discutibili; perché questo atteggiamento proprio verso di me, di rifiuto da parte di alcuni, da altri di sospettosa riserva? 

Adesso il motivo lo vedo chiaro. Proprio fra quelli più ostili stavano i fratelli che erano cresciuti con un’educazione che li metteva davanti un Dio giudice implacabile, punitore, da cui non vi era scampo. Nel mio diventare “giudice” nel suo nome, per il modo in cui vedevano la figura del prete, pensavano che sicuramente avrei portato in famiglia la condanna di Dio su di loro. La potenza di Dio incombeva sopra di loro come una pena eterna. Avevano terrore. Sentivano la necessità di scomunicare me prima che io lo facessi verso di loro.

Adesso, quando arriva la festa di questa stranissima venuta del Dio della Gloria, del Dio degli eserciti, del Dio onnipotente e giudice della terra nei panni di un povero e inerme bambino, senza esercito, senza potere terreno, penso di capire perché. Ci legge nel cuore. Conosce i nostri peccati.  Conosce la paura che abbiamo di essere puniti. Conosce il nostro terrore davanti alla sua gloria e la violenza del nostro tentativo di allontanarlo da noi. Viene come il figlio di un carpentiere per chiamarci alla tenerezza, per farci pensare alla sua necessità più che alla nostra. Viene per conquistare la libertà di chi ha paura. 

Non temere, lo sento dire. Non temete, ripeto alla mia famiglia. La conquista che egli cerca è quella dei nostri cuori, per poter stare vicino a noi in pace e per darci pace. Grazie, Gesù. Vieni! Vieni nelle nostre case, vieni nelle nostre vite! Vinci con la tua tenerezza.