“Caro Gesù Bambino come stai? Bene o male? Tu hai davvero un aiutante che si chiama San Nicola? Secondo te è bravo? E cosa usate per portare i regali a tutti i bimbi buoni senza farvi vedere o senza farvi sentire? Ti voglio bene ma davvero tanto, prendo bei voti a scuola e mi piace quando la mattina del 25 trovo i regali…”.
Sono brani di una letterina di Natale scritta a mano da Riccardo, un bambino ligure che, dopo un elenco di richieste, tra cui due spade laser, una pentola per la mamma, una cravatta per il papà e la pace nel mondo, chiude con un disegno del presepe, completo di bue e asinello. Quel presepe che, in questo periodo, solerti professori e presidi in più posti hanno pensato di vietare adducendo la necessità di non discriminare e vantandosi di essere laici… C’è da preoccuparsi? In realtà, vietare presepi e simboli cristiani non è un fatto nuovo, anzi è un super-dejavu: era una prerogativa dei sanculotti della rivoluzione francese e degli stalinisti di ogni dove. E oggi è un must dei fondamentalisti religiosi, più interessati a rinverdire la memoria di Erode, come si è visto ultimamente.
Rimanendo a casa nostra, a vietare il presepe ci aveva provato più volte il guareschiano Peppone, impegnato a impedire manifestazioni pubbliche del Natale persino a suo figlio che voleva recitargli la tradizionale poesia della vigilia. Peraltro, nei racconti di Guareschi il sopruso non riesce. I bambini se ne fregano del minculpop formato bassa parmense: il figlio del portinaio della casa del popolo costruisce un presepe clandestino e anche bello luminoso. Il figlio di Peppone per ripicca si rifiuta di recitare la poesia al padre pentito che, nonostante tutto, non riesce a rinunciare al Natale.
Come dimostra la letterina di Riccardo, tanti bambini, ancor oggi, se minimamente educati da adulti e insegnanti non totalmente invasati per il politically correct dilagante, rivivono la stessa esperienza che per secoli ha fatto commuovere gente di ogni ceto, davanti alle statuette di Gesù Bambino appena nato, Maria, Giuseppe, il bue, l’asinello, i pastori, la stella cometa.
Perché oggi questa scena così innocua dà tanto fastidio? Perché la normalità conformistica, asettica e soffocante, sembra prendere piede? Perché tanta resistenza a considerare ciò che il presepe vuole comunicare, Dio che si fa uomo? Come spiegava don Luigi Giussani, parte della fatica di essere uomini, è accettare che per essere noi stessi abbiamo bisogno di un altro, “occorre che venga qualcuno dal di fuori, dal di fuori dei nostri pensieri, della nostra capacità ridotta di vedere, deve venire qualcuno dal di fuori… E’ attraverso qualcosa d’altro che viene dal di fuori che l’uomo diventa se stesso”. E mai come in questa epoca l’uomo ha pensato di poter fare a meno del trascendente.
Questa è l’esigenza insopprimibile dell’uomo che si confronta con un fatto storico, terribilmente carnale, fatto di rifiuto, povertà, protervia dei re, ma anche di stupore, bellezza, commozione alla portata di tutti. C’è chi crede che quel bambino sia l’inizio di una presenza divina che risponde al suo insopprimibile bisogno e continua, oggi, a far compagnia all’uomo. C’è chi non crede a questa divinità, ma è confortato dal fatto che alla radice della nostra civiltà non ci sia la violenza consueta, ma questi braccini spalancati del bambino Gesù, vicino a un uomo attempato e alla donna simbolo della dolcezza e della bellezza di ogni donna e ogni madre. Per tante persone semplici, il Natale con il suo presepe è fonte di una consolazione vera, realista e non fittizia.
Ma gli Erodi, gli scribi, i farisei e i Caifa di ogni tempo hanno paura che il desiderio dell’uomo non si rivolga più a loro e guardi verso “qualcuno che viene da fuori”. E allora cosa fa il potere? Fa credere, come dice sagacemente Enzo Jannacci, che Gesù bambino sia “Babbo Natale da giovane”. O lo soppianta direttamente con il personaggio della storiella stile fantasy — astrazione fiabesca di un uomo reale, San Nicola — che vola su slitte tirate da renne come fossero un’astronave, così manipolabile da cambiargli la giacca da verde a rossa per motivi pubblicitari. In questo modo si può far credere che il desiderio di un altro che viene da fuori sia impossibile da compiersi, una bella illusione da concedersi in occasione di una festa a cui è relegato il sogno. O peggio, in cui far finta di essere buoni, come mia nonna voleva che mi mostrassi quando ogni anno cercavo di far saltare il tradizionale ed esiziale pranzo natalizio con i parenti.
Così si pensa di offuscare il messaggio che avevano capito i pastori di allora, gli uomini semplici di adesso e i bambini come Riccardo: che la bontà, di cui i regali natalizi sono segno, la porta un Altro che viene da fuori, che la pace nel mondo la porta un Altro che viene da fuori e gli uomini la possono vivere se Lo ascoltano arrivare di nuovo, silenzioso e poverello, ogni anno al freddo e al gelo nella notte natalizia.