Il Duemilaequattordici se ne va, come un vecchio stanco, rugoso, con molti acciacchi e non poche ferite. Giornali e siti si affannano a ricordarci i dodici mesi trascorsi con superficiali e francamente inutili graduatorie: l’elenco dei fatti politici più rilevanti in Italia o nel mondo; la classifica dei personaggi che hanno contato di più nel cinema o nello sport, nella scienza, ai fornelli o sul set cinematografico; il catalogo dei libri più venduti, delle nuove parole entrate nel lessico, dei video più virali in rete o dei tweet più diffusi. Tra qualche giorno, girata pagina, ci riproporranno analoghe graduatorie sulle aspettative o i desideri del piccolo Duemilaequindici che si avvicina come un bambino piccolo e sprovveduto, ancora senza definita personalità e aperto a diversissime possibilità.
Giorni di bilancio, dunque. Per il quale, però, queste graduatorie e classifiche non sono di nessuna utilità. Val più la pena essere coraggiosi con se stessi e – uscendo per un attimo dalla fatuità dei rumori e dei botti di capodanno – accettare lealmente due constatazioni che non si possono evitare, se non, appunto, nello stordimento effimero dei festeggiamenti.
La prima è ovvia e tutto sommato facile da accettare. Nell’anno trascorso si mescolano in diversa proporzione cose che cono andate bene ed altre che invece sono andate male, successi e sconfitte, acquisizioni e perdite. Un’altalena che rientra nella definizione di cosa sia una vita.
L’altra, invece, è più ostica. Cerco di spiegarla ricorrendo al viaggio dantesco. Dopo aver percorso tutto l’inferno e il purgatorio, Dante si ritrova nel paradiso terrestre ed assiste ad una impressionante processione allegorica, che si conclude con un meraviglioso carro sul quale troneggia una donna velata; il poeta comprende, anche senza vederla, che si tratta dell’amata Beatrice. E capisce di trovarsi ad una tornante decisivo del suo viaggio, ad un momento di passaggio fondamentale. Un po’ come è importante – seppure per una pura convenzione nel calcolo del tempo – il passaggio da un anno all’altro, il tornante del 31 dicembre.
Il poeta è emozionato e tutto si sarebbe aspettato tranne le parole che escono dalla bocca di Beatrice: un violento atto di accusa per i suoi peccati, per averla dimenticata all’inseguimento di altre voglie e di altri fini. L’attacco è così tagliente che Dante resta prima senza parole e poi si scioglie in pianto per la consapevolezza della giustezza del rimprovero.
Ma neppure questo basta all’implacabile giudice: il pellegrino dell’oltretomba – che solo in questo punto dell’intera Commedia dice il proprio nome, segno che si tratta di un passaggio cruciale e necessario – deve confessare apertamente le proprie colpe. Altrimenti non potrà proseguire, non potrà vedersi disvelare il mondo paradisiaco, il mondo sempre sperato, in cui non c’è più l’ombra del male.
Si tratta, dunque, di accettare che anche nel Duemilaequattordici abbiamo sbagliato, che parte del male da cui è stata trapunta la stoffa della nostra vita è dovuto proprio alla nostra cattiveria, al nostro errore. Si tratta di fare un bilancio leale e realistico dell’anno trascorso e quindi iniziare – rinvigoriti da questo bruciante confiteor– il giovane Duemilaequindici.