Finita la filastrocca dei “buon Natale” è partita puntuale nei negozi, come tra gli amici e i parenti, quella dei “buon anno” cui si accompagna solitamente qualche amara considerazione come “speriamo che quello venturo sia migliore del passato”, “speriamo che sia un anno pieno di serenità e di pace per tutti”.

I propositi sono davvero atavici nella cultura dell’Occidente: essi segnano un’ultima forma di superstizione che si ammanta di benevolenza, ma che — in definitiva — trasmette l’idea di un “incrociamo le dita e speriamo che tutto vada bene”. I nostri auguri, senza dubbio, esprimono quindi la nostra impotenza davanti ad un Destino che percepiamo incontrollabile e ingestibile, cui tutti inesorabilmente dovremo sottometterci. 

Eppure, se fossimo attenti alla nostra esperienza, ci accorgeremmo di almeno tre fattori che sfuggono a questo rituale propiziatorio e che possono trasformare il nostro latente cinismo in un vero atto di speranza. 

Il primo di questi fattori, che è sempre sotto i nostri occhi, è l’imponenza della nostra libertà. Non c’è istante della nostra vita in cui non siamo liberi di scegliere, di decidere, di volere. E questo, si capisce, è una bella responsabilità. Nei campi di concentramento, durante la seconda guerra mondiale, molti uomini sceglievano di continuare ad essere uomini e, con indicibili gesti di libertà, inceppavano i meccanismi dei regimi totalitari costringendoli ad agire per eliminare — nel minor tempo possibile — quelle variabili impazzite che, ad esempio, portavano il nome di Massimiliano Kolbe. L’Unione Sovietica, seppure con metodi più subdoli, temeva queste strane creature: Havel ne parla nel suo libro dedicato al “potere dei senza potere”, ossia a coloro che — avendo a disposizione ormai solo la propria umanità — decidevano di non venderla al Soviet, ma di usarla in modo spericolato e sorprendente. 

Se quindi un uomo, santo o fruttivendolo che sia, può cambiare tutto con un gesto di vera libertà, che cosa potrà mai fare il mio Io di fronte ai figli, al lavoro, alla moglie o agli amici? Il soggetto si manifesta, pertanto, come una creatura estremamente pericolosa, temuta da ogni potere e da ogni società minimamente organizzata: nel suo respiro infatti si nasconde sempre una possibilità di vita non calcolata e spesso capace di terrorizzare e ridicolizzare un’intera ideologia. Eppure, lo sappiamo tutti, questa libertà — che quest’anno ci è stata testimoniata da tanti fratelli cristiani perseguitati nelle zone del nuovo Califfato e nei diversi sistemi anticristiani diffusi un po’ dovunque nel mondo — è una libertà fragile, ferita, piccola. L’incontro con i Padri della Chiesa ci insegna che prima di Agostino questa fragilità non era definita con la dottrina del peccato originale, ma veniva espressa con l’immagine di un’umanità bambina, inconsapevole, incapace fino in fondo di amarsi e di amare.

Era lo stesso concetto del peccato agostiniano, ma l’immagine era certamente molto più immediata e, per noi postmoderni, attuale: dentro ognuno di noi è come se vivesse un bambino pasticcione che combina un sacco di cose socialmente inopportune con la propria libertà. A volte lo fa per sperimentare, a volte lo fa per urlare al mondo la sua esistenza, a volte lo fa solo perché è triste, ma — in ogni caso — quello che genera (come ogni bimbo agitato) è disordine e caos nel quale è veramente difficile scegliere chi e che cosa vogliamo diventare. 

Tante rivendicazioni dei nostri contemporanei, basti pensare a tutti coloro che quest’anno sono stati al centro dell’attenzione di molte discussioni e diatribe come gli omosessuali o i divorziati risposati, sorgono dall’intimo desiderio di chiedere per sé la possibilità di amare e di essere amati, un desiderio che viene manifestato sovente con battaglie politiche, pressioni culturali o pretese apparentemente incomprensibili (come quella di sposarsi o risposarsi in una società che letteralmente è in fuga dal matrimonio), ma che deve essere guardato per quello che è: un desiderio. Fatto della stessa stoffa che spinge molti altri uomini del nostro tempo a prendere facili scorciatoie per la felicità, come la corruzione, la criminalità organizzata, l’arrivismo, mostrandoci un cuore sempre più malato, sempre più piccolo, sempre più bisognoso. 

E’ qui che allora emerge il secondo fattore nascosto di questo nostro anno: la fame, la sete, la voglia di esserci e di essere riconosciuti. Dentro di noi abita un anelito insopprimibile che le circostanze della vita non mettono a tacere, bensì fanno esplodere in modo deflagrante. Non è un caso, quindi, se usciamo da un anno pieno di violenze, domestiche o internazionali, in cui la parola “conflitto” o la parola “tragedia” sono tornate ad essere — esattamente cento anni dopo l’inizio della prima guerra mondiale — pane quotidiano degli europei, che gridano tutto il loro male di vivere a volte arruolandosi negli eserciti dell’Isis, a volte dilaniando le loro famiglie, uccidendo i loro figli, mettendo fine alle loro stesse vite. Questo grido di dolore invade la terra e quotidianamente si mostra sempre più incalzante e aggressivo al punto che uno si chiede: “Chi potrà mai fermare tutto questo? Chi potrà impedire che queste cose non accadano in casa mia?”. 

Sulla soglia di questa domanda si innesta il terzo fattore che ha segnato il nostro anno e che spesso facciamo finta di non vedere: non tutto il mondo infatti è così, non tutte le umanità gridano facendo del male agli altri. Alcune urlano costruendo, banalmente, qualcosa. Pare superfluo parlare in questo contesto di Papa Francesco, della sua forza profetica che ha riportato addirittura il dialogo in terra cubana, o dei tanti piccoli e grandi eroi che quest’anno hanno saputo perdonare, rialzarsi, rimettersi in cammino tra i fanghi delle alluvioni o le macerie dei terremoti.

Eppure queste cose ci sono e vanno guardate: nella storia non c’è solo fango e letame, c’è un’Altra forza che agisce e che non si arrende davanti al nulla che avanza. Il Papa chiama questa forza “misericordia”. Si tratta di una parola difficile che, in ebraico, può arrivare perfino a descrivere le viscere materne: Dio si commuove intimamente per il nostro niente e continua a venirci a prendere. 

Dentro le nostre guerre, le nostre liti, le nostre ripicche Egli è fedele e non smette — neppure per un istante — di costruire il Suo Regno, che coincide con la nostra felicità. Una felicità che non è esente da dolori, da tumori, da morti, da attacchi di panico o da depressioni, ma che dentro a tutto questo fiorisce improvvisamente e gratuitamente. Ovviamente mostrandosi solo a chi la sa attendere, a chi la sa desiderare con tutto se stesso. Basta poco, basta smetterla con il nostro orgoglio, con una dottrina saccente brandita dinnanzi a tutti, con la nostra pretesa di insegnare al Papa, alla mamma o al nostro capo a fare il proprio mestiere smettendo così, paradossalmente, di fare il nostro. 

Se proprio vogliamo voltarci indietro e guardare ai dodici mesi appena trascorsi si potrebbe dire che questo è stato davvero l’anno del Nazareno. Perseguitato, criticato, scelto come sede di patti politici, Egli ha continuato, davanti ai nostri occhi, a vincere e a sorridere. Pronto ad accoglierci per un’altra grandissima avventura. Quella che ci aspetta fin da ora, fin dal momento in cui solleveremo gli occhi da questo articolo per tornare a vivere, per tornare a desiderare il volto di Qualcuno che, semplicemente, continui a perdonare quel pasticcione che abita dentro ognuno di noi. Quel bambino-mendicante che poi, se andiamo a vedere, è il vero protagonista di questa storia, della nostra storia. Quello che davvero si merita il nostro “buon anno”.