La grande, allegra kermesse milanese de “L’artigiano in fiera” ci raggiunge ogni anno, accompagnata da un immutato successo, con le sue domande silenziose e discrete. Uno può ignorarle, se vuole, ma loro esistono: sono lì, davanti a tutti.
La prima domanda riguarda le ragioni di questo successo. Cosa ci attira? O, meglio, cosa ci attira a dispetto di una cultura globalista, sempre più diffusa, che vede nell’artigianato o una gamma di prodotti iper-specializzati (il mito del fatto-a-mano, con annessi ricarichi) o una variegata paccottiglia — quella per intenderci che ci opprime in tante città e cittadine italiane con la sua ripetizione coatta di prodotti locali, dalla formaggetta alla ceramica?
O irraggiungibile o da evitare, ecco cos’è l’artigianato per la nostra cultura. Quello che sta in mezzo è industria robotizzata, tecnologia, design, Grandi Catene.
Eppure l’attrazione c’è, e basta una visita in Fiera per rendersi conto che quella con cui tiriamo avanti è solo una delle tante — e nemmeno delle più attendibili — versioni del problema.
Col passare del tempo e con il procedere della crisi (che di fase in fase mostra volti sempre differenti) noi cominciamo a comprendere per esempio come “artigianato” non abbia molto a che vedere con “prodotto locale”, a bassa diffusione, ma piuttosto con una questione culturale che riguarda in toto la possibilità stessa di uscita dalla crisi.
Perché l’uscita dalla crisi globale non potrà essere a sua volta globale.
La cultura nella quale viviamo immersi si basa (con qualche motivo) sulla supremazia dell’astratto sul concreto. I licei classici stanno più in alto di quelli scientifici, più sotto ecco gli artistici, poi ancora più sotto gli istituti tecnici e alla fine i professionali.
Si scende insomma dal concetto puro giù giù fino alla vile materia. Il che ha un suo fondamento antropologico molto antico, che cioè l’uomo realizza tanto più la propria natura quanto più è in grado di desumere leggi generali o meglio universali (in questo consiste l’astrazione) dalle esperienze particolari.
Questo andrebbe benissimo però se l’esperienza concreta fosse il punto di partenza ben chiaro per le successive elaborazioni del pensiero.
Invece col passare del tempo il pensiero astratto ha conquistato via via un’autosufficienza sempre maggiore, relegando così l’artigianato a una serie di azioni ripetitive, chiuse in sé stesse, incapaci di offrire vera materia al pensiero.
Qui non mi riferisco in prima istanza all’informatica e alla realtà virtuale quanto piuttosto a tutte quelle attività, come quella politica, che si stanno dimostrando oggi concrete solo quando c’è da spartire una torta ma astrattissime quando di tratta di definire il bene comune e di trarne le dovute (spesso faticose e poco appaganti) conseguenze.
In questa astrazione che non astrae (ossia che non impara) niente dall’esperienza noi viviamo immersi.
La ragione del successo apparentemente in controtendenza de “L’artigiano in fiera” (che è anche in fieri, nel senso che lo attende un ancora lungo cammino di crescita, grazie a Dio) sta invece nel bisogno estremo, che noi abbiamo, di ricondurre il travaglio dell’intelligenza alle fondamenta dell’esperienza, dell’azione.
L’uomo si realizza (anche come pensiero) attraverso il fare. Ma questo non è uno slogan o un luogo comune, e può avvenire solo se il fare è accompagnato da un’impostazione culturale consapevole.
Il più lampante esempio di questo, per tutto il mondo ma specialmente per l’Italia, è il Rinascimento, forse la più grande rivoluzione culturale della storia, che ebbe origine non solo dal recupero dei modelli estetici classici, ma anche e forse soprattutto da un ripensamento radicale sull’uso dei materiali (per es. con l’adozione della terracotta nelle sculture ornamentali).
Io credo che, anche oggi, le possibilità di uscita dalla crisi siano direttamente proporzionali alla nostra vicinanza con la materia, alla brevità della filiera.
Il rifiorire delle scuole professionali un po’ dovunque, non solo in Italia, con la messa al varo di nuovi progetti (licei artigianali ecc.) è segno che questi luoghi più che altri possono costituire non solo dei centri di addestramento ma anche dei veri e propri incubatori di imprenditoria, sia artigianale che culturale.
I giochi dell’astrazione riusciranno più difficilmente a fare lo sgambetto a chi impara a ragionare su/da quello che fa. L’artigianato è insomma un movimento culturale, altro che prodotto locale, o d’élite. Che ci chiede di farci sempre meno esecutori o passacarte e sempre più imprenditori di quello che facciamo, qualunque cosa facciamo.