Il mondo non ha bisogno di professionisti della carità. È la possibile sintesi di due interventi che il Papa ha fatto ieri e l’altro ieri. I contesti e gli argomenti erano molto diversi, ma l’approccio è stato simile. Il primo intervento è stato fatto davanti ai volontari della Focsiv, la federazione che raduna le organizzazioni cristiane di volontariato internazionale. Il secondo invece il Papa lo ha fatto ai membri della Commissione teologica internazionale.
Ai volontari Francesco non ha mancato di fare giusti elogi per la loro dedizione e impegno che, ha detto, è espressione della «tenerezza di Cristo». Ma poi calandosi nel momento storico ha fatto delle precisazioni per nulla di routine. Ha detto che oggi c’è un rischio di professionismo della carità che porta, nelle sue derive, a far sì che i poveri possano diventare «un’occasione di guadagno» (il riferimento alle vicende delle coop romane che lucravano sull’assistenza agli immigrati è trasparente). Ma il professionismo della carità è anche quello “buono” che guarda ai poveri unicamente come destinatari di un aiuto. Invece il mondo è profondamente cambiato e oggi siamo davanti ad un fenomeno nuovo che il Papa ha definito il «protagonismo dei poveri». I quali «oggi maturano aspettative diverse: aspirano ad essere protagonisti, si organizzano e soprattutto praticano quella solidarietà che esiste far quanti soffrono». Per cui essere solidali nei loro confronti è «agire in termini di comunità» con loro.
La parola non è scelta a caso: per il Papa i poveri prima di essere un problema sono un modello a cui guardare. Sono loro che «fanno la storia», nel senso che è da loro che può scaturire un’idea di sviluppo che non sia quella vorace e aggressiva che sta lacerando il mondo con i conflitti, e che ne consuma le risorse in modo irresponsabile. Quindi coi poveri si deve fare comunità, nel senso che sono loro che ci aprono una strada praticabile per il futuro. Quindi «l’altruismo che riduce l’altro alla passività» (parole del Papa!) è un approccio che appartiene a un tempo ormai finito.
Il giorno dopo Francesco ha cambiato auditorio, ma non ha cambiato la franchezza del suo parlare. E ai membri della Commissione teologica internazionale, con molta delicatezza, ha richiamato il rischio di un approccio intellettuale nello studiare problemi dottrinali di grande importanza.
«Il teologo è innanzitutto un credente che ascolta la Parola del Dio vivente e l’accoglie nel cuore e nella mente», ha detto Francesco. Ed è proprio la predisposizione all’ascolto l’antidoto che evita il rischio di un “professionismo” dove la teologia è ridotta a sofisma. Il teologo è colui «che deve mettersi anche umilmente in ascolto di “ciò che lo Spirito dice alle Chiese”, attraverso le diverse manifestazioni della fede vissuta del popolo di Dio».
Qualche giorno fa tornando dalla Turchia Francesco ai giornalisti aveva ripetuto l’aneddoto della confidenza che Atenagora aveva fatto a Paolo VI in occasione dello storico incontro del 1964: andiamo avanti nel dialogo tra ortodossia e cattolicesimo, aveva detto il Patriarca di Costantinopoli, e i teologi mettiamoli su un’isola a discutere tra di loro. Per tornare, per così dire, in terraferma i teologi devono di nuovo mettere in collegamento la mente con il cuore. E Francesco ha fatto subito un esempio di eccellente pratica teologica che è, guarda caso, il documento dedicato al “Sensus fidei nella vita della Chiesa”: «Mi è piaciuto tanto quel documento, complimenti! Infatti, insieme a tutto il popolo cristiano, il teologo apre gli occhi e gli orecchi ai “segni dei tempi”». L’ascolto come antidoto al rischio di un professionismo della carità, intesa come corretto lavoro intellettuale. Anche in questo caso le dinamiche si ribaltano: la profondità di pensiero richiede innanzitutto disponibilità ad aprire occhi e cuore.