Che cosa fa la stoffa di un Papa? La risposta che la storia e la vita della Chiesa hanno dato nei secoli a questa domanda nient’affatto scontata è che il Papa è un uomo che “rappresenta” Cristo sulla terra: il segno visibile, carnale, umano di Gesù presente nel mondo. E il suo compito è appunto quello di non far perdere mai questo nucleo vivente della fede, cioè il riconoscimento che nella Chiesa continua – attraversando e sfidando il corso dei secoli – la presenza contemporanea del Dio fatto uomo. Il fatto è che però questa risposta dottrinale la si comprende realmente, nella sua portata esistenziale, passando attraverso l’individualità specifica di ognuno degli uomini cui è stato dato questo compito straordinario.
E non tanto perché l’individualità storica possa “spiegare” l’elezione al Soglio di Pietro, come né il temperamento dell’Apostolo, e neppure il suo tradimento più di duemila anni fa, possono spiegare la preferenza di Dio; ma piuttosto perché, ogni volta, è la risposta di un uomo determinato, con la sua storia particolare, il suo carattere specifico, la sua personalità e il modo in cui egli è di volta in volta figlio del suo tempo che permette di capire la misteriosa portata della vocazione divina.
Certo, per la Chiesa cattolica un Papa non è mai l’esito di un buon curriculum o di un profilo azzeccato, o almeno, se anche lo si volesse riportare a questo, come pure è avvenuto nella drammatica storia della Chiesa, non è mai esclusivamente l’esito di tali fattori; e ne è riprova il fatto che la catena ininterrotta dei Vescovi di Roma, segno di unità e di universalità, non si è mai interrotta per motivi personalistici o strategici. Ma se un Papa è quello che è, per il fatto che la sua individualità personale è chiamata in qualche modo a divenire trasparente, pura testimonianza del suo Signore, d’altro canto è proprio perché si tratta di un uomo in carne ed ossa, come ciascuno di noi, che quella trasparenza diviene possibile e quella testimonianza diviene credibile.
Mi è apparso chiaro questo paradosso cristiano ripensando a cos’è stato quest’anno – nella Chiesa e nel mondo, e quindi nell’esistenza di moltissime persone – a partire dall’annuncio della gran rinuncia «al ministero del Vescovo di Roma, successore di san Pietro» fatto da Benedetto XVI durante il Concistoro dell’11 febbraio 2013. Oggi, per tutti, la Chiesa è la Chiesa di “Francesco”: il fiorire impressionante di una passione incontenibile al singolo uomo, propria di Cristo. Con quell’attenzione a portarsi, anzi a correre fino alle estreme «periferie dell’esistenza», in cui le persone più soffrono della povertà – povertà di beni e povertà di senso – e in cui questa povertà viene intesa e accolta sorprendentemente come il bisogno ultimo dell’uomo, quello di essere riconosciuto e amato da Dio. E addirittura viene chiamata «la carne di Cristo».
Ma questa fioritura, che gode senz’altro di tutto l’impeto umano di un uomo speciale, il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, non sarebbe letteralmente possibile senza la radice del coraggio evangelico di quell’altro uomo speciale che è il professore bavarese Joseph Ratzinger. E non solo, ovviamente, perché la presenza e il protagonismo del primo dipendono dal passo indietro del secondo, ma per una ragione più radicale: il segreto, per così dire, di questo nuovo inizio missionario della Chiesa sta nella rinnovata consapevolezza, detta pubblicamente, di fronte al mondo intero da Benedetto XVI, che Dio è quello che sempre comincia: «Solo il precedere di Dio rende possibile il camminare nostro (…), che è sempre un cooperare, non una nostra pura decisione. (…) Dio è l’inizio sempre e sempre solo Lui può (…) creare la Chiesa, può mostrare la realtà del suo essere con noi. Ma dall’altra parte, però, questo Dio, che è sempre l’inizio, vuole anche il coinvolgimento nostro, vuole coinvolgere la nostra attività» (da un Discorso dell’8 ottobre 2012).
In queste poche battute c’è l’accordo di fondo di una personalità che è tanto più unica e particolare, quanto più è “presa” da questa iniziativa che ci precede, e ci precede non solo all’inizio, ma in ogni momento del tempo.
La ragione umana può “afferrare” il vero perché è continuamente afferrata da esso; e può amarlo perché il suo affetto si origina nell’esser-colpiti, affascinanti e anche feriti dalla realtà. Esattamente come accade o può accadere ad ognuno di noi, impegnato a rispondere alla sua “vocazione”, quando cioè scopre nella storia di incontri, eventi, problemi in cui consiste la vita, di essere chiamato ad “esserci” con tutta la sua persona e a contribuire al bisogno del mondo. È nell’avvertire questa chiamata semplicemente ad essere, che risiede il principio di comprensione e di affronto nuovo delle non poche crisi che attraversano il mondo, la Chiesa e l’esistenza di ciascuno. E bisognava forse rischiare il gesto davvero estremo della rinuncia, da parte di Benedetto, per comprendere di nuovo e far comprendere a tutti che l’inizio non è mai in nostro potere; e che il nostro vero potere sta nel seguire e affermare ciò che di più grande di noi è iniziato in noi.
Da Benedetto a Francesco è una tenace continuità che si realizza (Dio che comincia sempre è quello che sempre nos primerea), grazie alla più inedita delle discontinuità: non dovuta alla morte, alla cessazione naturale, ma alla libertà e alla decisione amorosa. Per questo Ratzinger continua al fondo di Bergoglio, e tutte le differenze valgono come il segno più eloquente che l’inizio continua sempre.