Nell’editoriale del 25 giugno 2012 avevo già proposto alcune riflessioni sul valore, per un’autentica coscienza cattolica, delle reliquie e sul progressivo svilimento cui una visione intellettuale e astratta della fede le ha condannate. Ora sono sollecitato a tornare sull’argomento dal sorprendente afflusso di popolo a Milano in occasione dell’esposizione dell’urna contenente alcuni resti di san Giovanni Bosco, il geniale educatore torinese, padre della grande famiglia salesiana. Ovviamente la sorpresa per le folle accorse ha riguardato soprattutto gli intellettuali.

Quelli in permanente divisa laicista si sono lamentati perché devozioni popolari, accettabili nel profondo sud (sono sempre un filino razzisti), non si addicono proprio alle moderne vie della capitale economica che si avvia ad ospitare l’Expo. Altri hanno guardato il fenomeno con occhi tutto sommato benevoli (il popolo, si sa, non capisce e bisogna illuminarlo) e messo in guardia dai pericoli dell’oscurantismo sempre presente, secondo loro, in simili fenomeni; un quotidiano ha fatto anche un’inchiesta (si fa per dire) su «L’Italia delle reliquie», subito identificata nel titolo come il luogo «dove la fede autentica sconfina nel profano». Gli intellettuali in talare, invece, paternamente hanno accolto queste manifestazioni di pietà a patto di considerarle un primo passo verso una fede «più spirituale», cioè più intellettuale (che, grosso modo, coincide con le idee che coltivano nelle proprie teste). Il popolo cristiano, invece, capisce molto bene che cosa ci sia in gioco ed anche se magari non saprebbe spiegarlo, accorre a venerare le reliquie perché esse riaffermano senza sbavature la natura autentica del cristianesimo: un fatto presente. Torniamo al caso di don Bosco.

Certamente il suo lascito consiste nel metodo educativo, negli scritti, nell’esempio di amorevolezza e giovialità che tutte le biografie ci tramandano, ma uno se ne è interessato perché ha visto un qualche salesiano che è stato importante per lui: gli ha insegnato un lavoro, lo ha tirato su in un collegio, gli ha fatto superare momenti difficili. In questo modo il santo torinese è stato per lui presente, come se lo toccasse.

Allora, se passa a Milano una statua con un pezzo di braccio di quel santo, si ha proprio voglia di andarla a toccare, di inginocchiarcisi davanti. I libri, i precetti, gli insegnamenti son tutta roba importante, ma che non ha la stessa carnalità di un braccio che si accarezza. Il braccio di un santo, poi, potrebbe ancora sorprendere «facendomi la grazia» (così si esprime il semplice fedele che poi mette gli ex voto nei santuari), la grazia di cui ho bisogno nel presente. Proprio perché saldamente ancorato a questo carnale presente, il devoto della reliquia si trova, da un lato, immerso nella continuità di una lunga storia che, iniziata duemila anni fa in paesi remoti, lo raggiunge adesso e, dall’altro, inserito in quella misteriosa amicizia al di fuori del tempo che la fede chiama «comunione dei santi».