Quattro senza tetto dell’Est sono stati aggrediti a sprangate mentre dormivano nell’angolo di una piazza di Genova. Le telecamere hanno ripreso la scena e la polizia indaga. Che sia odio verso lo straniero o rancori personali il risultato non cambia: ci sono ferite da curare, spaventi da guarire, dolori e derive da soccorrere. Il male ha sempre le sue ragioni, ma queste sono sempre delle derive mentali, delle follie personali o di gruppo, delle cadute a corpo morto nella disumanità. I quattro incappucciati che hanno infierito su due coppie di senza tetto che dormivano avevano la maschera. Probabilmente per non farsi riconoscere dalle vittime, ma anche perché – e questo, certamente – non c’è più nessun volto dell’umano da mostrare quando si impugna una spranga per aggredire gente indifesa. Chi lo fa non ha più un volto: lo ha già perso prima di mascherarsi.
Ma non ci si può fermare solo all’aggressione senza interrogarci sull’ampiezza e le caratteristiche di una povertà alla deriva. Sui profili di vite incerte, che sopravvivono in condizioni precarie. Vite difficili e percorsi di auto-esclusione, ma anche tentativi di inserimento rapidamente destinati a naufragare quando la società entra in crisi. Quando all’euforia dei consumi si sostituisce la contrazione dell’occupazione, quando dalla molteplicità delle occasioni si transita alla fine delle opportunità. Una delle due coppie vive facendo spettacoli per strada, un’altra assistendo una donna anziana, poi deceduta. Ci si trascina così da una città all’altra, a percorrere vie che non possono dare se non risultati incerti e provvisori. Non sono clochard, ma solo persone alla ricerca di una vita possibile, una vita per la cui ricerca non hanno tuttavia né una mappa per trovare la strada, né, probabilmente, gli strumenti per riconoscerla.
I volontari della Caritas di Genova spiegano che, spesso, non è facile convincere chi vive ai margini ad accettare un ricovero notturno: altre convivenze, altre paure, altri timori prendono il sopravvento. A vedere tutto un po’ più da vicino, attraverso i volontari della Comunità di Sant’Egidio, si scopre un mondo, un universo di persone con la propria lettura della realtà, con la propria idea di possibilità, di occasione, di lavoro. Altri volontari parlano di liti, di rispetti mancati, di arroganze: e allora si può capire come in queste periferie dell’umano trovino spazio anche le periferie dell’anima. Si sviluppano così orgogli fragili, prosperano rancori che sfociano spesso, ma anche inevitabilmente, nella violenza più efferata come strumento di affermazione.
Il problema diviene allora quello di una frangia di umanità che non è solo scivolata dalla perifericità alla precarietà e da questa all’indigenza, ma è anche rotolata in una china dove finisce con l’affiancare persone per le quali i rapporti raggiungono gli estremi: percorrendo le mille strade che dalla solidarietà scivolano verso la delusione e da questa al rancore, e da quest’ultimo alla violenza.
Ma proprio questo consente di capire come il dare un rifugio o offrire un lavoro siano destinati a restare inutili se non reintegrano le mille individualità perse; se non collocano gli Jan e le Alice, i Jonas e le Susanna dentro un nuovo circuito di relazioni, dove questi possano riscoprire un’altra vita ed un’altra percezione del loro sé; dove possano riconoscere un mondo diverso, nel quale anche un lavoro semplice può essere la base per una vita assolutamente degna di essere vissuta.
Non ci saranno mai rifugi sicuri, né lavori dignitosi se i protagonisti che percorrono simili periferie non vedranno aprirsi davanti a loro la strada di un nuovo universo di relazioni. Solo l’accesso ad un tale universo potrà salvare i quattro senza tetto dalla miseria. La loro via d’uscita non è diversa dalla nostra: per tutti, per noi e per loro, per noi insieme a loro, la soluzione passa sempre attraverso degli incontri che ci restituiscono la dignità di ciò che siamo e di ciò che siamo chiamati ad essere.