Nella prima tappa per rievocare Charles Péguy nell’anno centenario della sua morte siamo giunti a quella che lui stesso ha definito la svolta cruciale della sua esistenza: il ragazzo povero, destinato a qualche umile lavoro nel sobborgo della sua Orléans, si trova lanciato in ben altre prospettive: studi classici, università d’eccellenza, Parigi. Ma proprio nel momento in cui gli si aprono davanti prospettive tanto gratificanti, Péguy fa una drammatica scoperta: gli esclusi. Al liceo, frequentato quasi completamente da ragazzi provenienti dalla borghesia, si impegna a raccogliere denaro per i minatori in sciopero; protesta allora molto rischiosa e che, comunque, lasciava totalmente senza stipendio, col pericolo di far piombare intere famiglie nella nera miseria.
Péguy non può accettare che qualcuno sia escluso da una vita dignitosa. In quegli stessi anni si impegna a distribuire viveri ai barboni di Parigi, coloro che vivono fuori dai margini di quella che pure ama chiamarsi cité lumière. Ma non si può definire «città di luce» quella che butta fuori dalle sue case e dalle sue vie, dalla sua ordinata convivenza anche una sola persona. Bisogna dunque lottare – scrive Péguy ai suoi amici e poi nei suoi primi saggi – per una città che sia «armoniosa», aperta a tutti. Come strumento per edificarla egli individua il socialismo, a cui si avvicina sempre di più sino ad iscriversi al partito. È un attivista deciso, soprattutto nel cercare tra i compagni d’università chi sia disposto a condividere i suoi ideali.
E intanto – siamo nel 1898 – scoppia l’affaire Dreyfus. Per Péguy l’ufficiale di origine ebrea, ingiustamente condannato per spionaggio e relegato in una lontana isola della Guyana, diventa l’esempio supremo dell’escluso e bisogna far di tutto per difenderlo. Così la libreria che aveva fondato coi soldi portati in dote dalla moglie diventa il centro della lotta pro Dreyfus nel cuore della cittadella universitaria parigina. Molti dibattiti, organizzazione di manifestazioni, presìdi e pochissimi affari; dopo poco più di un anno la libreria fallisce.
Fallimentare era stato anche l’esito della prima opera pubblicata da Péguy, un gigantesco ciclo teatrale dedicato a Giovanna d’Arco. Ed è strano che il giovane universitario, che ha ormai abbandonato la fede ricevuta da bambino ed è diventato fervente socialista e dreyfusardo, concentri il suo interesse sulla discussa eroina del quindicesimo secolo, che aveva preso in mano le sorti della guerra della Francia contro gli inglesi, ottenendo il suo più grande successo proprio liberando Orléans, per poi finire bruciata come eretica.
Se però leggiamo i primi atti della pièce ci accorgiamo subito che il cuore della Jeanne di Péguy è proprio il tema degli esclusi – dai miseri che perdono tutto a causa della guerra ai dannati al supplizio eterno –, tanto che la domanda ricorrente della protagonista è: «Come salvare?».
Si comprende, allora, che l’esclusione che scandalizza Péguy è certamente quella sociale, ma più radicalmente è l’esclusione dalla salvezza, vale a dire dalla pienezza dell’umano, dal significato, dalla verità. Péguy aveva abbandonato la fede cristiana proprio perché ai suoi occhi non rispondeva più alla totalità delle domande umane, dal pane alla bellezza, dalla giustizia all’armonia della convivenza sociale. Non più cristiano, Péguy conserva tuttavia acuto quello che chiama «appetito metafisico», il pungolo delle «grandi questioni». In futuro, infatti, dirà che gli anni dello studio e dell’impegno politico sono riusciti a togliergli la sua giovinezza, ma non a «rubargli il cuore».