Sabato scorso è stata una giornata di angoscia. WhatsApp, la popolarissima applicazione per inviare i messaggi dagli smartphone, è stata fuori uso per qualche ora. Per i suoi 450 milioni di utenti si è trattato di un’autentica catastrofe. Amore, politica, affari e tutti i tipi di commenti passano per questa applicazione creata dall’ucraino Jan Koum. Vissuto nell’indigenza, ora è milionario: la sua compagnia, che conta solamente 40 dipendenti, era la più corteggiata del mondo tecnologico fino alla settimana scorsa. Il problema avuto da WhatsApp è balzato agli onori della cronaca dato che l’azienda era stata appena acquistata da Facebook: la società di Zuckerberg ha sborsato 4 miliardi di dollari in contanti e 12 miliardi in azioni. Per molti si tratta di un investimento folle, dai ritorni incerti.

La sfida tra Facebook e Google è al culmine, per vincerla si pagano cifre che ricordano l’epoca della bolla del dot.com. Google aveva provato in precedenza a mettere le mani su WhatsApp senza riuscirci e la sua grande scommessa ora sono i Google Glass e l’internet delle cose, per questo ha comprato Nest. Con questa lotta, in cui si utilizzano la tecnologia più sofisticata e cifre astronomiche di denaro, si vuole dominare un mercato che offre servizi per la vita quotidiana, strumenti che servono per migliorare le attività più elementari.

Il nome WhatsApp è una semplificazione dell’espressione colloquiale inglese What’s up? (Cosa succede?). L’uso, in certi casi febbrile, di questa applicazione risponde al bisogno di essere perennemente in dialogo che ci appartiene da quando siamo usciti dalla Rift Valley come Homo Sapiens Sapiens. Dialogo e urgenza di essere visti: per l’applicazione passano milioni di foto in tutto il mondo, specialmente selfie (autoscatti). Ognuna è un grido, una richiesta di essere guardato. Essere guardato (abbracciato) e guardare: c’è qualcosa che ci descrive meglio? Gli occhiali di Google che hanno tanto successo hanno come caratteristica quella di proporre la cosiddetta “realtà aumentata”: la visuale dell’occhio viene ampliata attraverso l’accesso a dati e informazioni su ciò che si sta guardando ma che non si percepisce a occhio nudo.

Forse la tecnologia, migliorando il dialogo e la capacità di guardare, ci sta restituendo qualcosa che ci ha tolto Pico della Mirandola, quando ha scritto nel 1492 l’Orazione sulla dignità dell’essere umano. In quel testo, con cui ha avuto inizio uno dei modi di essere moderno, si assicurava che la dignità umana non sta in quello che si riceve, ma in quello che si fa. Quel che conta è quindi essere un autore. Perde importanza ogni forma passiva: essere ascoltato, guardare quel che ci è dato.

Da questo ottimismo rinascimentale è facile tracciare il percorso che conduce a quell’ideologia senza nome che ci domina tutti. Un modo di sentire e pensare che si esprime in un risentimento inconfessato verso il mondo che ci è dato, verso tutto quello che non controlliamo. Noi siamo quelli che siamo riusciti a fare noi stessi e il mondo, e quel che conta è ciò che abbiamo potuto controllare e costruire. Tutto ricade nei nostri schemi, tutto ha una “spiegazione adeguata” nel sistema che abbiamo messo in piedi. E così il dialogo si trasforma in monologo, la realtà si riduce a una struttura binaria, il male ha sempre un’origine politica, le cose non sorprendono più, l’imprevisto è impossibile e non desiderabile, l’altro è una minaccia o qualcosa di cui si può fare a meno.

In questo universo non succede mai niente, l’ideologia ci ha fatto credere che perché accada qualcosa occorre un motivo adeguato e che esso ha sempre l’aspetto di qualcosa che è stato programmato in anticipo. Ed è qui che la tecnologia sembra sconfiggere l’ideologia, almeno metaforicamente parlando.

Quelli che criticano l’eccessiva dipendenza dagli schermi sono troppo preoccupati dalla morale. Non riescono a vedere la sete che scorre come un fiume sotto le nuove abitudini e che ci parla dell’uomo molto più di tanti discorsi sui valori. Tantissime persone corrono verso l’icona verde di WhatsApp sul loro cellulare. Nella maggioranza dei casi non digitano nessuno messaggio pratico: vogliono parlare con gli altri, cercano un mondo diverso dal loro per sentirsi ascoltati e valorizzati. Succede persino quando il dialogo è banale.

Siamo fatti così, finché siamo soli il nostro pensiero ha la forma di una conversazione. Portiamo scritta nella nostra mente e nel modo di pronunciare il nostro nome la grammatica della relazione. Questa grammatica è anche quella che rende possibile il successo della “realtà aumentata”. Vedere in quel che guardiamo sempre qualcosa di diverso, di nuovo, è una delle nostre aspirazioni più profonde. Le cose, e ciò che c’è dietro a esse, continuano a interessarci. Proprio perché sono differenti, perché non le abbiamo fatte noi. Vogliamo che le nostre applicazioni ci aiutino a recuperare un mondo che ci metta in movimento. Alla faccia di Mirandola e di tutti i suoi seguaci.