L’11 marzo ricorre il decimo anniversario degli attentati di Madrid. Tutti gli spagnoli ricordano dove si trovavano quella mattina contrassegnata da dolore e impotenza, quando un atto di un’infamia quasi sconosciuta ha provocato 191 morti e circa 2.000 feriti. Ci fu dapprima silenzio in una città in cui tutti piangevano e nessuno voleva dire una parola fuori posto: la gente quasi camminava per strada senza fare rumore. Poi c’è stata la furia, la rabbia strumentalizzata.
C’è voluto un decennio per acquisire una certa serenità e perché destra e sinistra arrivassero a un consenso sull’origine degli attentati. Il nuovo direttore de El Mundo ha ammesso che il suo giornale è stato vittima di un inganno quando ha sostenuto per anni che dietro i morti ci fosse qualcosa di più del terrorismo islamico. Restano ancora interrogativi aperti, ma il recente libro di Fernando Reinares “Matadlos” (“Uccidili”) raccoglie i progressi fatti finora dalle indagini. L’autore, docente ed esperto di terrorismo, offre una versione discussa da pochi.
Il jihadismo aveva creato una cellula in Spagna a metà degli anni ’90. Nel 2001 un’operazione della polizia ha portato all’arresto del suo leader Abu Dahdah. Uno dei membri, Amer Azizi, ha deciso quindi di colpire il Paese come atto di vendetta. Azizi, marocchino con collegamenti diretti con la cupola di Al Qaeda, ha creato per il suo scopo una cellula terrorista in cui ha messo insieme differenti gruppi. La decisione di agire è stata presa prima che venissero convocate le elezioni del 14 marzo del 2004 e prima che la Spagna decidesse di sostenere l’intervento americano in Iraq, che venne usato solo come pretesto.
La colpa di quanto accaduto è solo dei terroristi, ma la catena di tremendi effetti secondari scatenati dalle bombe è stata opera della debolezza istituzionale, della polarizzazione e della fragilità della società spagnola. Aznar, dopo gli attentati, non ha mentito, ma ha preferito, lasciandosi trasportare dall’inerzia e da dati insufficienti – e forse da un certo calcolo -, accusare l’Eta. I socialisti avevano chiesto una riunione congiunta, ma nel momento in cui la loro richiesta non è stata accolta hanno dato vita a un gioco elettorale immorale. A poche ore dal voto, attraverso dati forniti dai propri “uomini fedeli” nella polizia, hanno giocato in modo molto sleale. L’opposizione, in quelle ore cruciali tra l’attentato e le elezioni, ha avuto informazioni migliori di quelle dei ministri e ha cominciato a fomentare un “trasferimento della colpa”, che ha portato ampi settori sociali a scatenare la propria ira contro il Premier, che è stato ritenuto responsabile di quanto accaduto avendo appoggiato la guerra in Iraq.
Dopo è arrivato il resto. L’onda espansiva della menzogna ha colonizzato la vita pubblica. Per anni c’è stato il predominio del dibattito ideologico, dove qualsiasi frammento di verità, dopo aver subito non poche manipolazioni, viene utilizzato come un’arma. Quasi tutti noi spagnoli ci siamo resi complici, in qualche modo, della tensione dominante.
Dopo l’11 marzo quel che è pre-politico ha invaso il politico destabilizzandolo profondamente: è una buona lezione per coloro che ancora credono che una democrazia meramente procedimentale possa stare in piedi. Il pre-politico in questo caso è l’iniquità. Nulla è automatico: la società spagnola, che per decenni ha sopportato il terrorismo dell’Eta senza esserne radicalmente destabilizzata, ora reagisce in un altro modo. Forse questa è la miglior prova che siamo davanti a un cambiamento generazionale: le vecchie certezze non esistono più.
Non per questo tutto è perduto, anzi. La Spagna di oggi è stata resa possibile da un’altra generazione che aveva presente la memoria di una “destabilizzazione” più radicale (con decine di migliaia di morti): quella provocata dal fallimento della Repubblica, dalla guerra civile e dalla dittatura. Oggi abbiamo il ricordo vivo di quello che la riconciliazione durante la Transizione ha reso possibile.
La storia dell’Europa negli ultimi 60 anni è stata costruita grazie al realismo di ammettere che il male è capace di distruggere un certo idealismo ingenuo e liberale, quello che attribuisce alle istituzioni virtù miracolose che non hanno. C’è voluta la Seconda guerra mondiale per farci riconoscere che i diritti fondamentali non possono essere solo il diritto positivo ma l’espressione di qualcosa di tanto metapolitico come la dignità umana.
Non è mai troppo tardi per liberarsi dell’ideologia, da quel sistema comodo che ti risparmia lo sforzo di indagare nella complessità della realtà, con la sua attrattività e la sua ricchezza appassionante. Di fatto dieci anni dopo l’11 marzo sembra spuntare, ancora in maniera timida, quello che alcuni chiamano “nuovo paradigma”. Non sono pochi coloro che sono stanchi della polarizzazione e dei vecchi sistemi. Appare chiaro in un certo cinema, in una certa letteratura, in certi spettacoli in cui vibra con tutta la sua forza l’esperienza umana, con il suo desiderio di qualcosa di solido, con la sua infaticabile ricerca di significato.
È la stessa vibrazione che si può trovare negli occhi di molti mendicanti che la crisi ha messo per strada. Questo è il punto di partenza.