Burger King Baby

Cosa ci dice la vicenda di Katherin Deprill, meglio nota in america come 'Burger King Baby' per essere stata abbandonata alla nascita in un fast food. Ne parla SALVATORE ABBRUZZESE

Abbandonata a poche ore dalla nascita nella toilette di un Burger King della Pennsylvania 27 anni fa (un fatto di cronaca che, all’epoca, suscitava ancora clamore) e adottata da una giovane coppia, Katherin Deprill è oggi sposata, madre di tre figli e lavora come tecnico in un laboratorio medico. Da qualche giorno la “bimba del Burger King” – com’era stata chiamata dai giornali dell’epoca – ha messo un annuncio su facebook per cercare la madre naturale che l’aveva abbandonata. Non ha risentimenti, anzi, nutre riconoscenza per quella madre che non l’ha abortita, vorrebbe incontrarla, capire se ha fratelli o sorelle: “vorrei dirle che sto bene” ha dichiarato alla stampa. Come a dire: “so che mi voleva bene, proprio per questo mi ha lasciato in un posto in cui sarei stata trovata”. Ed è in questo minimo umano vitale, in questo sommesso respiro di affetto che passa una delle più potenti lezioni dell’esistenza, una di quelle “evidenze originarie” che strutturano l’essere umano: il rapporto tra madre e figlio, cuore del reale. 

Katherin Deprill è piena di riconoscenza per i genitori adottivi ai quali sa di dovere tutto ciò che è diventata. La tenerezza dell’accoglienza è un bene che resta nel tempo ed è incancellabile. Tuttavia “la bambina del Burger King” vorrebbe recuperare quel rapporto primario, quel legame naturale che l’ha fatta nascere, che le ha dato la possibilità di esistere ed al quale si sente legata e comunque grata.

Non mi sembra che questa dimensione dell’umano sia realmente colta, né che ci si renda conto della sua importanza, vista la disinvoltura, quando non addirittura l’indifferenza, con la quale la si tratta. La vulgata del relativismo culturale ama girarsi dall’altra parte, le evidenze danno fastidio, ostacolano il passo all’ideologia della flessibilità, della costante “riparametrazione” di formule e principi. Così, dinanzi alle luci della ribalta mediatica per la quale tutto e il contrario di tutto sono sempre possibili, ci arriva la storia semplice e sommessa di due donne, una madre ed una figlia, unite da un soffio di esistenza condivisa, appena percettibile, sostanzialmente invisibile: la ragazza di oggi riconosce nella madre la ragazza di allora che, nel vuoto terribile che deve aver provato, fa un gesto estremo di speranza, le dà una (una sola) possibilità di vivere. Oggi quella stessa creatura, diventata adulta e madre consapevole, non solo la perdona, ma si preoccupa per lei, per il suo amore di madre in ansia, lo riconosce, e vi interviene: “vorrei dirle che sto bene”. 

Qualsiasi scienza dell’uomo che non sappia cogliere questo “pianissimo” che è presente nel cuore dell’uomo – ed in questo caso nel cuore della donna che vive un’esperienza di maternità – è semplicemente una scienza inutile, non serve e possiamo felicemente farne a meno. Qualsiasi disciplina scientifica che nel delirio dei modelli della scelta razionale non sappia cogliere lo spessore della relazione, ed in questo caso della prima e più potente delle relazioni, è in realtà una scienza cieca, non vede e non sa. Qualsiasi visione dell’uomo e della donna che prescinda da questo vincolo affettivo e potente e si esima dal trarne le debite conseguenze per derubricarlo a semplice costruzione culturale, diffonde confusione ed alimenta una colpevole ignoranza, costruisce un universo a misura delle soggettività autoreferenziali della società post-moderna e si rende ancella del senso comune più banale e triviale.

Fare i conti con la realtà, vuol dire anche saper cogliere, dietro i fatti di cronaca – i sentimenti semplici come quello di Katherin Deprill, ma anche quello della madre che l’ha riconosciuta dandole una possibilità di vita – quel soffio di umanità radicale, di tenerezza profonda della quale siamo dotati e che, di fatto, non può essere che un dono. Così il desiderio di Katherine, di dire alla madre “che sta bene” ci riapre le porte dell’umano ed è per tutti noi un’occasione per convertirci: si tratta infatti, per tutti noi, di girarsi a riconoscerlo. Farlo non è solo un dovere verso la realtà, ma è la condizione indispensabile per riconoscere la scintilla di bene infinito che c’è nell’uomo e che non dobbiamo dimenticare.

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