Cercasi vita felice

L'insediarsi del criterio dell'utilità pratica in cima alle ragioni che motivano allo studio regna da decenni indisturbato negli atenei. Con quali conseguenze? SALVATORE ABBRUZZESE

In una recente conferenza tenuta a Roma, l’antropologo Marc Augé ha riproposto il problema educativo. L’urgenza delle misure richieste dalla crisi economica tende infatti a confinare l’educazione e l’apprendimento delle conoscenze in un’area decisamente secondaria, facendone un lusso da riservare a momenti migliori. Per certi versi ciò è inevitabile, ma è anche altrettanto evidente che si uscirà dalla crisi economica non solo quando si recupereranno trend occupazionali soddisfacenti, ma anche e soprattutto quando si avranno quote consistenti di popolazione istruita. “Non è irragionevole pensare – afferma Augé – che se decidiamo di impegnarci al massimo per l’istruzione, la ricerca e la scienza, facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello, avremo più occupazione e maggior prosperità”.



Si tratta fin qui del noto rapporto esistente tra aumento dei livelli di istruzione e aumento del Pil, un aumento che – per Augé – chiama direttamente in causa il problema delle disuguaglianze: “Lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i meno istruiti significa aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza”. Augé, ed è qui la novità, ammette che “noi viviamo nell’epoca dell’apertura dell’insegnamento superiore alle masse, ma il tasso di fallimento dei primi due anni è considerevole”. Il tentativo egualitario, in altri termini, per quanto abbia abbattuto ogni tipo di ostacolo all’accesso ai gradi di insegnamento superiore non ha conseguito nessun risultato apprezzabile. Augé se ne rende conto ma evita di chiedersi perché questo accada, limitandosi alla richiesta di una maggiore attenzione alla diffusione delle conoscenze se si vuole evitare “un’oligarchia del sapere”.



Augé non sembra prendere in considerazione la riduzione – in atto da decenni – degli obiettivi della conoscenza al conseguimento del semplice inserimento professionale. L’insediarsi del criterio dell’utilità pratica in cima alle ragioni che motivano allo studio regna da decenni indisturbato negli atenei. Ora è proprio questo primato che produce il declino dell’intero sistema delle conoscenze, indipendentemente dalle modalità di accesso: una scuola orientata alla sola acquisizione di saperi collegati ai principali ambiti di attività pratica perde ogni ragione di essere quando questi stessi sbocchi professionali si fanno incerti e improbabili. I primi a lasciare gli studi sono proprio coloro che, avendo minori risorse economiche, trovano più pesanti i costi e meno certi i vantaggi.



Lo scenario di esclusione crescente dall’istruzione che Augé individua va pertanto ascritto non ai meccanismi di selezione meritocratica, la cui rimozione non ha minimamente scalfito il declino degli iscritti, bensì alla riduzione del sapere alle sole componenti orientate al mercato del lavoro. Da antropologo Marc Augé sa bene che la riduzione della cultura ai soli settori funzionalmente collegati al mercato è spaventosamente limitante. 

Egli infatti ammette che la conoscenza degli altri e del mondo ci è indispensabile: “Forse un giorno ci ricorderemo che non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi ed a conoscere l’universo che li circonda”. Ma dall’altro un tale obiettivo sembra emergere sul solo piano orizzontale: si tratta qui di capire come è fatta la terra (e quindi quali sono le leggi fisico-naturali che la governano) e come sono fatti gli uomini che la abitano (e quindi conoscere i costumi, i simboli e i valori che caratterizzano le singole culture). 

Il problema dei fini ultimi, ai quali Augé fa peraltro esplicito riferimento, ha bisogno di recuperare tanto la prospettiva storica quanto gli interrogativi di ordine metafisico. L’acquisizione del sapere “in sé e per sé” implica necessariamente la consapevolezza delle eredità culturali che ci sono pervenute, la conoscenza dei tentativi di edificazione dell’umano – sia sul piano individuale sia su quello sociale – realizzati nella storia, trasmessi dalle opere artistiche e letterarie ed analizzati dalle scienze storico-sociali.

Non c’è sapere senza la passione e l’entusiasmo del recuperare e valorizzare quanto ci è stato trasmesso. Ma non c’è passione né entusiasmo possibili se non ci si convince che la posta in gioco è sempre stata il diritto alla vita piena dell’essere. Vale la pena recuperare qui l’affermazione di Rémi Brague secondo il quale ritenere che “non si abbia bisogno di metafisica e ancor meno della sua versione popolare, la religione, poiché è sufficiente una buona morale per sapere cosa fare, un diritto ed una politica efficace per farla rispettare” è semplicemente falso. Solo recuperando la densità di simili domande e le ragioni che le suscitano ha senso riaprire i libri, oggi, dentro questa stessa crisi.

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