Da un po’ di tempo assistiamo a un nuovo sport nazionale: è quello di trovare un pezzo del nostro patrimonio che ha subito danni o che è vittima dell’incuria per iniziare una geremiade sull’abbandono in cui l’Italia lascerebbe le sue ricchezze. Intendiamoci, a chiunque, cominciando dal sottoscritto, piange il cuore nel vedere un palazzo, un castello, una chiesa dalla grande bellezza abbandonata a se stessa. E in un paese dall’immensa bellezza diffusa come l’Italia è purtroppo un’esperienza che è facile fare: di sicuro in Svezia e o in Danimarca, tanto per fare un esempio, di questi problemi non ne hanno, non perché siano più bravi ma perché le bellezze da quelle parti latitano. 

Ma torniamo a noi: che Pompei sia un grande problema aperto è cosa assodata. Ma che ogni caduta di pietra in quel complesso di xx ettari, debba fare il giro del mondo, enfatizzata da media e intellettuali indignati, è cosa che può essere spiegata in buona parte come vocazione all’autolesionismo. Che il saccheggio della Biblioteca dei Girolamini a Napoli raccontato da Tomaso Montanari in un bellissimo pamphlet (Il popolo e le pietre), sia un episodio di gravità inaudita, non si discute. Ma per fortuna è un caso estremo, con precisi responsabili, spesso anche tra personaggi insospettabili. Un caso estremo non va preso per la regola. A leggere i giornali invece sembra che l’Italia sia ridotta ad una distesa di rovine, di tesori abbandonati a se stessi, con perdite di ricchezze irrecuperabili. 

Non è così, nella maggioranza dei casi. Ogni giorno nel nostro paese aprono le porte qualche migliaio di musei e qualche decina di migliaia di chiese. Il problema piuttosto è un altro: per chi si aprono? Recentemente Fabio Donato, esperto in management della cultura, ha coniato una nuova categoria: quella dei “dead museum walking”. Sono quelle istituzioni che hanno non tanto problemi di conservazione, ma più nessuna energia progettuale per promuoversi e coinvolgere pubblico. Ai duri e puri del partito della conservazione questi sembrano essere problemi di interesse relativo. Quel che conta è preservare, con una logica davvero unilaterale: come se l’interesse preminente fosse sempre e solo quello degli addetti ai lavori, senza nessuna preoccupazione per “il pubblico”. Per restare ai due termini compaiono nel bel titolo del libro di Montanari, l’importante è assicurare che le “pietre” siano ordinate e al loro posto; quanto al “popolo” nessuno se ne preoccupa. Tutti sogniamo di poter rivedere il centro storico dell’Aquila, uno dei più belli d’Italia. Ma pensare che sia solo una faccenda di pietre e non anche di un popolo che vivrà tra quelle pietre e di quelle pietre, è solo progettare un’operazione di laboratorio.

Se le pietre (o i quadri) non hanno una “vita”, anche la sfida per la loro conservazione rischia di essere una lotta contro i mulini a vento. Dare loro una vita, significa lavorare perché tornino ad essere familiari, che producano senso di appartenenza. Per dirla con una parola semplice: che diventino fattori di esperienza. Nessuno ha la ricetta in tasca, né esistono soluzioni standard. Ma qualcuno (molti più di quanto sospettiamo) in Italia ci sta provando, con creatività e seguendo percorsi fuori dai canoni. Sono percorsi che tengono conto di un fattore identitario del patrimonio artistico italiano: che è un patrimonio per tutti, che è nato per essere pubblico, per essere parte integrante della vita quotidiana di un popolo e non di un’élite.