Il presente è lo spazio che ciascuno di noi ha a disposizione per decidere dove e che cosa guardare, è lo spazio della nostra libertà. Eppure molte volte il presente è un tempo che sfugge, che passa, senza che noi ce ne accorgiamo. Tutto questo accade per un unico motivo: la mancanza di consapevolezza. Gli istanti della nostra vita ci sfuggono o, comunque, sono spesso muti perché manca in noi una reale percezione di quello che c’è. Ci manca – insomma – il rapporto con la realtà. Si può dire che a volte, in qualche misura, noi viviamo “a posteriori”, senza accorgerci sul serio di ciò che abbiamo davanti. Qual è l’origine di questa fatica a “stare”, a “rimanere” in contatto col presente? 

La liturgia cattolica di rito romano presenta nella terza domenica di Quaresima la figura della Samaritana, una donna per cui il presente era insopportabile. Aveva avuto cinque mariti e quello che aveva adesso “non era neppure suo marito”. Questo la faceva vivere in uno stato di prostrazione e di dolore che la rendeva estremamente suscettibile e attaccata alle proprie idee. Su queste idee la donna sfida il Giudeo Gesù al pozzo di Sicar e Lui – di contro – smaschera la posizione della straniera facendo emergere il punto decisivo della sua vita. 

I Padri della Chiesa, soprattutto quelli latini del V secolo, hanno sempre ravvisato in questo episodio una metafora dell’umanità, prostrata da matrimoni falliti e ridotta a convivere con un dolore immenso. La numerologia – d’altro canto – ha identificato nel cinque il numero dei sensi e nel sei il numero dell’umano. La Samaritana è una donna che ha provato a sposare tutti e cinque i sensi, ma non è mai riuscita a sposare se stessa. Si tratta di una donna che non riesce ad amare sé e – proprio per questo – vive aggrappata alle idee e all’ideologia. 

Anche noi, nell’istante, siamo spesso aggrappati a noi stessi, alle nostre idee, ai nostri impulsi e ai nostri giudizi: proprio per questo non riusciamo ad essere liberi e a decidere dove guardare. Segnati da quello che crediamo di aver capito, e dalle ragioni che riteniamo di avere, siamo indisponibili al presente se non come luogo dove riconfermare noi stessi o affermare una nostra particolare voglia. Ma anche noi, come la Samaritana, nascondiamo solo un grande dolore che nessuno sa davvero guardare. Anche noi siamo incapaci di amare noi stessi, di guardarci con quella cordiale simpatia che ci fa mettere al primo posto l’infinita ampiezza del nostro cuore. Capricciosi e bestiali, ciò che spesso bramiamo è di averla vinta, di essere prima soddisfatti nelle nostre rivendicazioni per poi, con la pancia piena, concedere un po’ di spazio al nostro vero Io. 

Desiderare tutto ci sembra troppo, e allora ci sposiamo con qualcosa che è meno di tutto senza mai arrenderci al fatto che il nostro cuore è fatto per le stelle. Accontentarsi di aver ragione o del calore di un’amante, come di vincere qualche battaglia sociale o culturale ci porta − inesorabilmente − verso un ultimo e infimo risentimento, per cui alla fine tutti diventano i colpevoli della nostra misera vita: il marito, la moglie, la politica, i giudei. 

L’esperienza della donna di Samaria sta lì a dirci che la nostra unica speranza è un incontro: l’incontro con Cristo che mette a nudo la vera questione, tutta l’ampiezza e la sproporzione del nostro Io. Senza Cristo siamo solo ostaggio di noi stessi, siamo solo dei piccoli rivendicatori arrabbiati che non hanno il coraggio di guardare in faccia il presente. Perdendoci tutto, perdendoci il meglio della vita. Quel meglio che non accade quando lo decido io e come lo decido io, ma che accade ora. Proprio ora mentre io sto scrivendo e tu, come la donna di Samaria, sei semplicemente sceso al pozzo per prendere la tua acqua. E adesso, come allora, sta proprio a ciascuno decidere se cedere o meno allo sguardo di Cristo che è qui per svelare chi siamo e per farci prendere coscienza di quanto ognuno di noi ha semplicemente bisogno di essere amato.