La visita di Obama a Roma – 36 trafelate ore iniziate ieri sera e suddivise tra una cena, un po’ di sonno, gli incontri nell’ordine con il Papa, Napolitano e Renzi, la visita al Colosseo, un passaggio in ambasciata e poi la corsa verso l’aeroporto – ha provocato la consueta salva di luoghi comuni sulla presunta predilezione dei presidenti americani per le visite in Italia.
In realtà non è affatto così: mentre da De Gasperi in avanti i capi di governo della nostra Repubblica si erano quasi sempre premurati di inaugurare il loro mandato con una devota visita a Washington (tradizione ormai patetica che Renzi si è lodevolmente lasciato alle spalle), i presidenti americani in viaggio in Europa avevano un’opposta tradizione, ovvero quella di snobbare l’Italia. Il loro tour di rigore era di tre tappe più una: Londra, Parigi e Bonn (poi Berlino), più un passaggio a Bruxelles al comando della Nato. Per riuscire a contare più di dieci visite di presidenti americani in Italia nei circa settant’anni trascorsi dalla fine del fascismo bisogna grattare il fondo del barile mettendo insieme anche visite di cortesia alle autorità italiane in occasione di visite ufficiali in Vaticano o presenze nel quadro di riunioni del G7 e poi G8 e simili (come il vertice Nato-Russia del 2002) che avevano luogo in Italia. Se invece ci si limita a vere e proprie visite di Stato in Italia non si arriva a dieci. La nostra sbandierata fedeltà “atlantica” solo di rado è stata insomma ritenuta meritevole di ganascini da parte dell’inquilino della Casa Bianca.
Anche questa volta, se si esamina con attenzione la tabella di marcia della giornata romana di Obama, ci si avvede che il presidente americano si ferma a Roma in sostanza per incontrare il Papa salvo poi, grazie alla sua ottima forma fisica, attraversare di corsa la città passando a stringere al volo la mano di Napolitano, poi quella di Renzi, quindi altre mani meno illustri nella sua ambasciata e al Colosseo, e infine risalire con la sua tipica corsetta veloce i gradini della scala di accesso all’Air Force One.
Forse è un peccato, e più per lui che per noi, dal momento che nei nostri ambienti di governo (nel senso più ampio di tale espressione) potrebbe utilmente confrontare le sue idee in tema di politica verso la Russia, e l’Est europeo in genere, con un Paese che malgrado tutto ha in materia un’esperienza più ampia e articolata di quella dei suoi prediletti interlocutori europei nordatlantici. Se infatti Berlusconi è stato esplicito nel criticare la posizione molto dura che l’Unione Europea sta assumendo verso la Russia su pressione di Obama, non è solo da lui che vengono sollecitazioni a una minore animosità verso Mosca la cui area d’influenza da molti anni ormai si sta restringendo sia in Europa che nel Levante. Mosca ha già dovuto subire molto, e a lungo termine non è prudente spingerla ulteriormente contro il muro.
Quello della Crimea (un pezzo di Russia che Kruscev spostò d’autorità dentro i confini ucraini al tempo dell’Unione Sovietica quando ciò non aveva grande rilievo politico) è un caso a parte; di per sé non è l’inizio inevitabile di un tentativo di Mosca di riprendersi tutti i territori russofoni che sono oggi fuori della Russia. Sarebbe stato meglio se ciò fosse avvenuto in modo pacificamente negoziato, ma comunque tutti sapevano che un giorno o l’altro la Crimea sarebbe tornata a far parte della Russia. Fra l’altro è sintomatico che il nuovo governo ucraino abbia assunto nella crisi, che pur riguarda innanzitutto l’Ucraina, una posizione molto più defilata di quella che si ostenta a Bruxelles.
In ballo non ci sono soltanto le forniture di gas, che comunque la Russia ha tanto bisogno di vendere come l’Europa occidentale di comprare. Sono in gioco anche legittimi interessi di più ampio periodo come la stabilità nell’Europa centrale e come il possibile grave colpo di freno che l’inasprirsi della crisi tra Occidente e Russia potrebbe dare ai primi timidi segnali di ripresa dell’economia internazionale che ora si intravvedono. Sarebbe il caso di pensarci.