La realtà contro la guerra

Oggi, come cento anni fa, soffiano in Europa i venti di una guerra. FERNANDO DE HARO ci ricorda come si può far in modo di spegnere i focolai della violenza umana

Più o meno la situazione è come cento anni fa. Fortunatamente la Crimea non è la Serbia, non c’è l’Arciduca Francesco Ferdinando e nessuno vuole la guerra. La crisi scoppiata in Crimea è comunque molto grave. La Russia di Putin non è disposta a sopportare la caduta di Yanukovich e ad accettare un governo pro-Europa in un Paese che ha sempre considerato un proprio satellite; non può consentire che una regione energeticamente strategica sia fuori dal suo controllo. In realtà, la Russia non ha mai nemmeno concepito la possibilità di un’Ucraina come quella attuale, costruita con i resti dell’Impero austro-ungarico e i territori che considera suoi: la base della flotta a Sebastopoli non può restare isolata.

Non siamo nel 1914 perché non ci sono più le potenze centrali, perché la Germania non vuole un conflitto, perché esiste una cosa che si chiama Unione europea che, nonostante tutto, rappresenta un passo avanti. E perché gli Stati Uniti, con tutti i loro limiti e la loro “decadenza”, non predicano l’isolazionismo: speriamo che Obama non sia come Wilson. Forse la Russia è quella più indietro nel tempo, come se la Rivoluzione d’ottobre avesse aperto una parentesi ancora non chiusa: sogna un impero.

Non siamo nel 1914, ma forse siamo nel 2008, quando abbiamo visto l’invasione della Georgia. O nel 1991, quando è iniziato il crollo della ex Jugoslavia. Sicuramente non ci sarà altra scelta che tollerare una Crimea russa, sebbene non si possa scartare l’ipotesi di una guerra civile, perché l’Ucraina, come gli altri paesi nati dalla rottura dell’Impero Austroungarico, non è riuscita a darsi stabilità: russi, tedeschi, polacchi, tartari e ruteni formano un mosaico di popoli che possono dividersi e affrontarsi sotto le bandiere di Oriente e Occidente. Ancora una volta si rende necessario rileggere il “Requiem per un impero defunto” di Francois Fejto.

Non siamo nel 1914 per la geopolitica, ma lo siamo per la cultura. Le fonti a cui si sono abbeverati quei giovani che cento anni fa sono scesi in piazza in Germania, Inghilterra e Russia manifestando per la guerra sono le nostre stesse fonti. Quei ragazzi volevano azione, il rumore delle macchine e il sangue della battaglie, per uscire dall’impasse in cui erano bloccati. Erano cresciuti nella Belle Époque. Dopo l’inizio della Seconda rivoluzione industriale la prosperità e la classe media crebbero in tutta Europa, ma questo progresso non era sufficiente.

La domanda di significato della vita non trovava risposta nel vecchio mondo che è scomparso. Le attività di personaggi come Planck, Einstein e Freud avevano minato le certezze di un tempo, generando un’inquietudine senza limiti, espressa anche da una produzione artistica a livelli conosciuti poche altre volte. La generazione che ha finito per desiderare l’annichilimento, dopo mesi nelle trincee, è quella di Tadzio de “La morte a Venezia” (di Thomas Mann) e di Sebastian di “Ritorno a Brideshead” (di Evelyn Waugh), quella del modernismo. È un tempo che grida in modo geniale, pazzo, febbrile e distruttivo nelle tele del postimpressionismo, del cubismo e dell’espressionismo.

Quel desiderio esplosivo di significato ha finito per gettarsi nelle mani dei nazionalismi. È fuggito dal presente cercando paradisi futuri fatti di bandiere e inni. Non si può tenere tanto tempo la domanda aperta senza una soluzione. E il potere è sempre disposto a offrire una formula rapida per utilizzare questa energia che muove il mondo.

Siamo nel 1914 perché nonostante l’effetto anestetizzante del consumismo, noi figli della seconda modernità, quando vogliamo dar voce al nostro cuore lo facciamo con il linguaggio di quell’epoca. Siamo per certi versi allo stesso punto di allora: fortunatamente sono state costruite barriere contro il nazionalismo, ma sfortunatamente il nichilismo non è scomparso, è solo indebolito.

Ora, come cento anni fa, la medicina per evitare la strumentalizzazione dell’ideologia è favorire un legame consistente con la realtà. Solo l’impatto sincero tra la realtà reale (non pensata o costruita) e l’io che desidera può evitare l’alienazione. Da questo contraccolpo nasce l’autenticità, l’esperienza e la libertà che desideravano i giovani del ‘14 e desideriamo noi oggi.

Nella generazione del ‘14, di coloro che morirono nella Grande Guerra, c’era almeno qualcuno che comprese qual era il problema: Péguy. Il genio invitava continuamente a seguire la cruda realtà, come un evento che sta succedendo. “C’è qualcosa di peggio dell’avere un cattivo pensiero. È avere un pensiero bell’e fatto […]. È il germe del presente dove si radica la fecondità del cuore e del pensiero. L’instancabile realtà può continuare a produrre senza tregua il presente”. Ed è qui che può essere la risposta. Anche se c’è sempre in agguato la minaccia dell’infaticabile “abitudine che trasforma tutto in passato”. È il meccanismo dell’alienazione. Per questo ci vuole un aiuto, una Compagnia che sia definitiva.

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