In queste ore siamo tutti, qui a Mosca, con il fiato sospeso a seguire la ridda di tragiche notizie – spesso contradditorie e incontrollabili – che si susseguono dall’Ucraina. Mi scrive Svetlana Panic, un’amica: «Ero in metrò. Lo sguardo mi cade sul giornale che legge la mia vicina, che titola “Guerra santa” parlando dei combattenti del Maidan che torturano i genitori sotto gli occhi dei figli ecc… Quando, non riuscendo a trattenermi, le chiedo: “Ma è sicura che sia la verità?”, non mi risponde. In quel momento ho capito: il problema non è solo che ci stanno facendo il lavaggio del cervello… È che la gente ha perso ogni speranza nel vero, nel giusto, nel bene, e si aggrappa a chi le dà un’illusione di sicurezza e di forza. È inutile cercare di dissuadere la gente, il nostro compito non è tanto quello di denunciare, quanto piuttosto di porre domande, ascoltare, parlare. Senza trincerarci nel “nostro fronte”, ma scendendo sull’arena dell’umanità tutta intera. Persino con quelli che questa comune umanità per ora la rifiutano. Anche questo è un lavoro, a volte molto rischioso. Che cosa ne verrà fuori, ci penserà Iddio».
L’Ucraina è sulle bocche di tutto il mondo, e i giudizi che si leggono sono i più svariati, ma comunque si evolvano le cose, e per numerosi e complessi che siano i fattori in gioco, ci sono almeno tre elementi che fanno sì che questo dramma superi di gran lunga le dimensioni di un conflitto locale dove in gioco sono interessi economici e politici, rancori etnici e lotte ideologiche, e si trasformi invece in una pagina esemplare di civiltà da cui possiamo/dobbiamo imparare.
Il primo: è una battaglia comune, per l’autodeterminazione della persona e della società, che pesca nella stessa battaglia ideale che faceva dire, in epoca non sospetta, quando non si aveva idea che sarebbero crollati i muri, al dissidente russo Vladimir Bukovskij: «Nella folla, in una situazione estrema, vince l’istinto di autoconservazione… – Perché proprio io? – si chiede ognuno nella folla. – Da solo non posso fare niente. E periscono tutti. Stretto contro il muro, l’uomo riconosce: “Io sono il popolo, io sono la nazione”. Non può indietreggiare, e preferisce la morte fisica a quella spirituale. E, cosa straordinaria, nel difendere la propria integrità egli difende insieme il proprio popolo, la propria classe o partito. Sono questi uomini a conquistare il diritto alla vita per la propria comunità, anche se forse non ci pensano. – Se non lo farò io, chi lo farà? – si domanda l’uomo stretto al muro. E salva tutti. Così l’uomo comincia a costruire il proprio castello».
Sono in molti, nonostante tutto, in Russia, a comprendere che oggi stiamo combattendo «per la nostra e la vostra libertà»: «Nell’agosto del 1968 sette coraggiosi andarono sulla Piazza Rossa perché si vergognavano del regime. E dato che il regime si identificava col paese, questo sparuto gruppo di persone brucianti di vergogna per il governo uscì fuori per mostrare che c’era qualcuno che la pensava diverso dal Politburo. Oggi di gente che si vergogna del governo ce n’è molta di più. Qui sta la differenza principale col 1968. Lo Stato ha rotto definitivamente col paese. Il regime, impazzito per i dolori fantasma provocati dall’impero, immaginandosi che l’impero si possa ricostituire, convinto di esprimere l’opinione della maggioranza e di potersene fregare della classe colta urbana, ha compiuto un passo suicida. Non sarà l’inizio di un nuovo impero. Sarà l’inizio della fine…». A scrivere queste righe è stata Novaja gazeta, una delle poche testate indipendenti rimaste in Russia, subito dopo la decisione di intervenire militarmente in Ucraina presa dal parlamento russo.
«Per la nostra e la vostra libertà»… Del resto, non più tardi di lunedì 24 febbraio in centro Mosca la polizia ha fermato oltre 600 persone che si erano assiepate per protestare contro le pesanti condanne giudiziarie inflitte ad alcuni protagonisti delle «passeggiate di protesta» che da ormai due anni raccolgono voci di protesta nel paese. Lo storico Andrej Zubov, docente all’università MGIMO di Mosca, redattore di una monumentale Storia della Russia del XX secolo da lui ideata insieme a Solženicyn, è stato licenziato in tronco per il suo coraggioso intervento «antimilitarista» sul quotidiano Vedomosti. La poetessa Ol’ga Sedakova, sulla sua pagina di facebook scrive «agli amici ucraini» esprimendo il senso di impotenza che la invade di fronte all’«impossibilità di influire sulle decisioni del potere statale», ma soprattutto di fronte all’«impossibilità di dialogare con la stragrande maggioranza dei nostri concittadini, che ripetono cordialmente le menzogne infami di cui la sta nutrendo la propaganda ufficiale». «Io vi prego – conclude il suo appello la Sedakova – se non di perdonare le persone che si lasciano così plagiare, perlomeno di non smettere di sperare che la ragione e la sanità mentale possano tornare in Russia. Solo in questo caso diverrà possibile la pace che stiamo implorando dal Signore».
Il secondo elemento: impressiona lo spettacolo di presenza concorde e responsabile delle Chiese, che in queste settimane sono state un un fattore di equilibrio sociale, si sono realmente fatte incontro a ogni «periferia esistenziale», non scavando fossati ideologici ma salvando l’uomo, ogni uomo, interponendosi fra i combattenti per arginare spargimenti di sangue e degenerazioni.
E parole come misericordia, perdono, responsabilità, dignità umana non solo sono state centrali sul Maidan, ma hanno innescato anche un nuovo inizio di convivenza tra le Chiese stesse. Il 24 febbraio il Santo Sinodo della Chiesa ucraina maggioritaria, dipendente dal Patriarcato di Mosca, ha varato una Commissione ufficiale per il dialogo e il riavvicinamento con le cosiddette Chiese ortodosse non canoniche, nate cioè da uno scisma all’inizio degli anni 90, e con cui i rapporti sono sempre stati molto tesi.
Il terzo elemento: incredibilmente ma realmente, oggi la tragedia dell’Ucraina urge noi cristiani a superare continuamente ogni tentazione ideologica – che è esattamente quello che vorrebbe il nemico – per riportare la speranza, la bellezza, la luce nei cuori feriti e offuscati. Come ha detto un nostro amico sacerdote, padre Mykola Dymyd, al termine di una giornata di scontri e di morte, a chi gli chiedeva cos’avesse in cuore: «Una grandissima fiducia in Dio onnipotente».