Dappertutto in Italia, ma specialmente a Milano, i primi due mesi del 2014 sono stati tra i più piovosi delle ultime decadi.
Questo ha permesso agli attenti cittadini milanesi di valutare con calma e obiettività lo stato del suolo cittadino cosparso di pozzanghere a causa dell’incapacità dei pavimentatori di stendere superfici d’asfalto (o di qualunque altro materiale) che fossero piane e uniformi.
Non parlo degli sterrati, ma delle superfici asfaltate, carreggiate e marciapiedi, che la pioggia ha reso simili a campi dopo la battaglia, con i pedoni obbligati a compiere ogni sorta di slalom (speciali, giganti e spesso anche paralleli) per evitare di infradiciarsi i piedi. Per non parlare della quantità di buche di cui sono pericolosamente disseminate le vie cittadine.
La mia però non è una lamentela da pagina delle lettere dei nostri quotidiani. È accaduto di molto peggio, se è per questo, e per fortuna anche di molto meglio, perché Milano grazie a Dio è ancora viva.
Comincio dalle buche e dalle pozzanghere per ricordare a chi se lo fosse dimenticato che a Milano si è sempre lavorato bene, e che un operaio milanese non avrebbe mai permesso alla superficie di un marciapiede di trasformarsi in un saliscendi tutto gobbe e avvallamenti.
Quando le gare e gli appalti pubblici non erano trasparenti come oggi si può dire che le cose andavano meglio: l’assessore o chi ne faceva le veci chiamava la sua ditta di fiducia e le affidava il lavoro. A volte questi incarichi lasciavano immaginare oscuri maneggiamenti, però il più delle volte si trattava di gente che sapeva fare il proprio lavoro.
Poi all’epoca degli intrallazzi (parola fuori moda, ci avete fatto caso?) si sostituì quella della trasparenza (parola anch’essa fuori moda) e le cose cominciarono ad andare anche peggio, perché ci fu subito qualcuno che si domostrò capace di usare la trasparenza molto meglio di coloro che l’avevano proclamata.
La trasparenza rimase un valore solo nominalmente: nei fatti diventò un nuovo iter burocratico. Finita l’epoca dei lavori affidati ad personam, cominciò quella (per dirne una) delle buste chiuse, con l’appalto assegnato d’ufficio a chi faceva l’offerta più conveniente.
Questo criterio virtuoso permise a chi virtuoso non era (ma in compenso era molto furbo) di usare questo metodo per riciclare – anche qui è solo un esempio – un po’ di denaro sporco. Il meccanismo è semplice: io mi faccio assegnare il lavoro grazie a una richiesta bassa, poi lo subappalto a imprese che pagano gli operai un po’ in regola e un po’ in nero.
Chi vuole ottenere i suoi scopi ha dovuto semplicemente cambiare stile. Al tempo degli intrallazzi si usava il classico metodo della corruzione, mentre al tempo della trasparenza si usa quello del riciclaggio.
Con una differenza, però, che non esito a definire culturale. Nel primo caso bisogna(va) comunque cercare di ottenere la fiducia di qualcuno, e il modo più spiccio era (è) quello di comprarla. Ma non è un metodo certo: la fiducia, c’è chi è disposto a venderla e chi no. Tra la correttezza e la disonestà resta ancora una barriera: la persona, il singolo individuo.
C’è sempre qualcuno che, obbedendo a Dio o alla propria coscienza o al denaro, decide di concedere o non concedere la propria fiducia, che è dunque il bene essenziale, la ricchezza primaria.
Viceversa, nel secondo caso la fiducia è inutile, non è più una ricchezza, nessuno la deve più comprare né vendere.
Come il lettore può vedere, non ne faccio una questione di onestà, ma solo una questione culturale: tolta di mezzo la fiducia, di fatto viene tolto di mezzo il soggetto, la persona. Ad esso si sostituice un iter, una procedura.
Il sistema può anche funzionare, non dico di no. Però intanto le città sono piene di buche e di pozzanghere, come se non importasse più a nessuno chi fa le cose.