Non c’è alcun dubbio che i giudici della Consulta, dichiarando incostituzionale la proibizione della procreazione eterologa, abbiano ritenuto opportuno, anzi forse doveroso, “allargare l’ambito dei diritti” (per usare un’espressione oggi in voga), abbattere barriere e divieti anacronistici, ormai intollerabili anche perché facilmente aggirabili dal “turismo procreativo”.
In altre parole, è più che lecito ipotizzare che gli ottimi giudici della Corte si siano convinti di portare con la loro sentenza un importante contributo a quella lettura aperta e progressista della nostra Carta costituzionale che ormai tutti ritengono doverosa, una lettura aperta al futuro e chiusa al passato: non si può certo continuare a leggere la nostra Costituzione oggi con gli occhiali di coloro che l’hanno scritta ed approvata alla metà del secolo scorso! Le coppie sterili sono tutte eguali e hanno tutte un pari diritto alla salute; proibire l’eterologa implica formalizzare un’indebita discriminazione e quindi violare il principio costituzionale di eguaglianza!
Discriminare significa trattare situazioni eguali in modo diverso. Ma è proprio eguale la situazione che viene fronteggiata con la fecondazione omologa e quella che viene fronteggiata con la fecondazione eterologa? No: le due situazioni non sono eguali ed è un vero peccato che ai nostri giudici sia sfuggito questo punto di non piccolo rilievo e che tutti i bioeticisti intellettualmente onesti conoscono benissimo.
La fecondazione eterologa non è semplicemente una tecnica per combattere la sterilità di coppia (come indubbiamente è la fecondazione omologa); è qualcosa di più e di diverso. Essa risolve indubbiamente gravi problemi procreativi di alcune coppie (peraltro una piccola minoranza, dato che per fortuna la maggior parte dei casi di sterilità si risolve benissimo con le tecniche omologhe), ma li risolve in un contesto sistemico che ne altera la natura medico-terapeutica. Con la fecondazione eterologa si “moltiplicano le figure genitoriali”: accanto alla coppia che la richiede si colloca una terza figura, quella del donatore (o della donatrice) di gameti, chiamata a sostituire nella dinamica procreativa il partner sterile e a confinare quest’ultimo nel ruolo di “genitore sociale”: una figura che nella fecondazione omologa non esiste e non può esistere.
Non basta. La fecondazione eterologa, diversamente da quella omologa, inevitabilmente attiva dinamiche di commercializzazione, di dura commercializzazione, della procreazione umana. L’espressione, comunemente utilizzata dai fautori dell’eterologa di “donatori” di gameti è falsificante.
Non esistono “donatori di gameti”. I gameti – e in particolare gli ovociti – che vengono utilizzati nelle pratiche di procreazione eterologa sono comprati e venduti, seguendo una logica di mercato, come è dimostrato dal fatto che possiedono rigide quotazioni commerciali collegate all’età dei “donatori/venditori”, alla loro identità etnica, alla loro supposta “qualità” e potenzialità procreativa. Il divieto nei confronti della fecondazione eterologa, a parte le forti ragioni etiche a suo fondamento, ricollegabili alla moltiplicazione delle figure genitoriali, possiede altresì una non meno rilevante ragione giuridica, quella che da sempre ha visto con ostilità (se non con disgusto) la commercializzazione del corpo umano e di ogni sua parte. E’ curioso come a grandi giuristi, come i giudici della Corte, sia sfuggito questo aspetto così rilevante della questione.